Un’antica tradizione rurale campana del periodo di Carnevale
Sin dalle epoche più remote, le culture che si sono avvicendate nel corso dei secoli hanno sempre attribuito grande importanza alle ritualità poste all’inizio di ogni ciclo annuale, quasi a voler sottolineare un ricominciare “ex novo”, mentre la società ristabiliva i fondamenti del suo vivere.
Era questo un momento dell’anno in cui le forze del bene e del male agivano simultaneamente, quasi fossero un’energia primordiale che l’uomo, con mezzi magici o con riti religiosi, poteva volgere a proprio vantaggio, oppure allontanare da sé. Tra i rituali più importanti ci sono sicuramente quelli dedicati al tempo, espresso sia in mesi che in stagioni.
Canta dei Mesi
Uno di questi è la “Canta dei Mesi” che, oltre ad essere un retaggio degli “ambarvalia” – una serie di riti che si svolgevano nell’antica Roma alla fine di maggio per propiziare la fertilità dei campi e celebrare la dea Cerere – è un’allegoria che vuole essere, nel contempo, omaggio e devozione per ciò che Madre Natura offre nel susseguirsi delle stagioni.
La “Canta dei Mesi” è una manifestazione diffusa in tutta Italia, e quindi anche in Campania, nei centri a “vocazione agricola”. Da un punto di vista antropologico, ci presenta uno spaccato di una società arcaica, di un mondo rurale in cui la Canta aveva il potere di scacciare la sfortuna, pur essendo legata ai riti di questua che avevano il compito di ristabilire la condizione economica in una comunità.
La sua rappresentazione avviene negli ultimi giorni del periodo di Carnevale e i suoi protagonisti sono lo specchio di un microcosmo sociale proprio della realtà contadina: c’è un Re, sfarzosamente abbigliato con un vestito di foggia del seicento spagnolo che rappresenta il potere; un servo che simboleggia la dipendenza; dodici figuranti che rappresentano i mesi e quattro che raffigurano le stagioni. Insieme a loro vi sono due paggi, un Arlecchino (al nord) o un Pulcinella (al sud) il cui sarcasmo e la cui ironia sono l’unica difesa alle prepotenze subite. Ci sono poi guardie con alabarda che “mantengono l’ordine pubblico”, mentre alcuni suonatori assicurano l’accompagnamento musicale con fisarmoniche, chitarre, violini e mandolini.
Anche in Campania, ogni comunità conserva e preserva la propria memoria relativa alla “Canta dei Mesi”: scopriamo insieme le tradizioni più importanti.
Casale di Carinola
A Casale di Carinola, in provincia di Caserta, oltre ai dodici mesi fa la sua comparsa Capodanno, il “mese nascosto”, probabilmente una sopravvivenza del “mercedonio”, il mese intercalare dell’antico calendario romano.
Pignataro Maggiore
Anche Pignataro Maggiore, sempre in provincia di Caserta, celebra una grande tradizione della Canta. I protagonisti sono i dodici mesi dell’anno, cui si accompagnano Capodanno – che veste di nero, con alamari ed orlature d’oro, ha in testa un elmo, porta un grosso bastone, simbolo di autorità, e regge un cestino pieno di confetti perché nel giorno di capodanno in ogni casa regna l’abbondanza – e Pulcinella, che ha tra le mani un bastone da cui pendono le ziarèlle, nastri di vario colore. Dopo il preambolo dei due personaggi accessori è la volta dei Mesi, i quali, a turno, nel modo più comico possibile, tra le approvazioni ed i commenti del pubblico, cantano la propria “canzone”.
Cusano Mutri
Terminiamo il nostro “itinerario” con Cusano Mutri, borgo sannita in provincia di Benevento, che dedica alla “Canta dei mesi” il pomeriggio dell’ultimo giorno del Carnevale. Lo spettacolo è diretto dal “Padre dei Mesi”, un uomo imponente munito di una “piroccola”, un gran bastone con l’anno millesimato. Ogni mese viene rappresentato da un personaggio eccentricamente abbigliato che, con la sua cavalcatura, avanza recitando i suoi versi. Al linguaggio italianizzato misto a vocali locali e al contenuto “letterario” piuttosto scarso, si contrappone una curata mimica con ammiccanti allusioni a fatti da noi non conosciuti.