Giochi e combattimenti nell’arena del I secolo d.C.
Una prima testimonianza dell’anfiteatro romano dell’antica Allifae – l’attuale cittadina di Alife, in provincia di Caserta – risale al 1500 nelle traduzioni di alcune epigrafi, oggi andate perdute, per opera del vescovo di origine spagnola Antonio Augustín. In queste si raccontava che un certo Lucio Fabio Piro avesse organizzato dei giochi con trenta coppie di gladiatori e bestie feroci africane. Sempre sull’anfiteatro di Alife qualche secolo dopo, esattamente nel 1700, nelle “Dissertazioni Historiche delle Antichità Alifane” di Gian Francesco Trutta, colto sacerdote di Piedimonte, troviamo un paragrafo che recita così: “solo congetturando può dirsi che tanto esso (l’anfiteatro) quanto il circo (l’altro edificio) fussero fuori l’odierno recinto delle mura alifane. Ovvero l’uno accosto alla diruta chiesa dei Santi Sette Fratelli onde si sono ritrovate numerose pietre squadrate, e l’altro accosto alla chiesa di San Giovanni Girosolamitano, dove si vede un terreno seminato di prodigiosa quantità di spezzati mattoni”.
Di questo grande Anfiteatro oggi è visibile solo la parte ristrutturata, grazie ai fondi del 2007 del Programma Operativo Regionale che ha preservato dal dissesto la muratura sottostante. L’altra metà dell’anfiteatro fu “sacrificata” nel 700 per costruire una strada. Grazie al ritrovamento di uno “strigile”, un attrezzo metallico (che però poteva anche essere in legno o in osso) utilizzato dagli atleti per detergere il sudore, si è ipotizzato che la struttura sorgesse su un luogo sacro già predisposto per i giochi. Alto circa venti metri, imponente, adornato di marmi, stucchi e pitture, l’anfiteatro poteva contenere circa quindicimila spettatori. All’epoca la popolazione alifana contava tra i seimila e i settemila abitanti, ragion per cui il restante pubblico proveniva dai piccoli agglomerati agricoli della zona, quindi pur essendo di provincia, l’anfiteatro godette di una popolarità pari a quella di Capua o di Teano.
Il centro era costituito da un’area pianeggiante a forma ovale, coperta di sabbia: l’arena. Ad essa si accedeva da due porte principali, poste agli estremi dell’asse maggiore. Una era la porta libitinensis, che prendeva il nome da Venere Libitina, la dea dei funerali e dalla quale uscivano i gladiatori caduti nell’arena o i moribondi che qui ricevevano il “colpo di grazia” da personaggi armati di martello e vestiti come Caronte. L’altra apertura era, all’opposto, la porta triunfalis dalla quale iniziavano gli spettacoli con l’entrata in scena del corteo dei gladiatori che poteva essere guidato da un magistrato seguito dai conducenti dei fasci littori, se disposto dallo Stato, se invece era organizzato da un cittadino privato, allora si predisponeva un’uscita degli inservienti che reggevano le palme. Il sopra citato Lucio Fabio Piro che non era nobile, ma di famiglia facoltosa, avendo avuto una rapida ascesa politica prima come decurione, che gli permise di entrare nella giunta, e poi come duoviro, ovvero uno dei due sindaci, era tenuto a offrire spettacoli pubblici, ragion per cui organizzò due giochi gladiatori e una rappresentazione teatrale per dimostrare la sua ricchezza e la sua potenza.
Ma cosa accadeva davvero nell’arena? La riforma di Augusto nel I secolo che riguardava i giochi gladiatori, prevedeva una divisione in categorie degli stessi combattenti, quasi tutti appartenenti a popolazioni sottomesse dall’Impero Romano, ad eccezione però dei Sanniti, un popolo rude ma leale e forte che, avendo dimostrato grande devozione alle legioni nel corso della battaglia della Foresta di Teutoburgo nell’anno 9 d.C. a seguito del tradimento del Centurione Arminio, fu esonerato dai giochi per volere dello stesso Imperatore. In campo scendevano quindi i “mirmilloni”, uomini dotati prevalentemente di forza e potenza, che combattevano contro i “traci”, i quali sul cimiero avevano l’immagine di un animale mitologico, il grifone, ed erano dotati di uno scudo rettangolare e di una spada ricurva a L, la sica, che serviva a colpire lateralmente l’avversario. A questi si univa il “rezzarius”, dotato di rete e il tridente, che combatteva con il “secutor”, l’inseguitore dall’elmo strategicamente liscio per sfuggire alla presa della rete e colpire con la daga il suo avversario. Una volta che i gladiatori facevano il loro ingresso nell’arena, la folla si alzava e li applaudiva in delirio. Spesso il privato era solito anche fare regali che potevano consistere in denaro, pezzi di pane, oppure schiavi, stoffe e abiti se era particolarmente ricco. A fine combattimento poi, per coprire il fetore di sangue, gli “spartiones” buttavano rose profumate sugli spettatori.
Le autorità nell’anfiteatro di Alife prendevano posto nel “sacellum”, collocato proprio al centro dell’ellisse. La parte sottostante era considerata un luogo sacro dedicato a Nemesi, la dea della giustizia divina, e qui i gladiatori ponevano una statua sull’altare perché in caso di morte non fossero comunque dimenticati; oppure lasciavano un’epigrafe, come testimonia una piccola incisione di due lettere, la S e la P, collocata su quel che resta di un pezzo di muro della struttura.
Tra il IV e il V secolo, l’anfiteatro iniziò il suo lento ma inarrestabile declino e quando a partire dal VII secolo Alife visse un momento di grande crescita urbana grazie soprattutto al Conte di Drengot, un nobile normanno che ristrutturò la città, ne costruì le mura e edificò il castello, l’anfiteatro fu smembrato pietra su pietra, partendo dai marmi che lo rivestivano, ivi compresa l’iscrizione dedicatoria (attribuibile forse ad Augusto) e della quale sono state ritrovate una V e una R. Il resto fu materialmente sciolto in un forno a quattro aperture, dove fu collocata una cava a cielo aperto per produrre la calce.