Tra le industrie più fiorenti di Napoli: l’arte della seta

Antica produzione di pregio che faceva concorrenza alle città italiane

L’arte della seta è stata in passato per la città di Napoli uno dei primati artigianali. Importante settore economico, impegnava molta parte della forza lavoro cittadina tra 1500 e 1600, dai contadini che si occupavano della coltivazione dei gelsi, all’allevamento dei bachi e della trattura, i filatori, i tintori, i tessitori e infine i mercanti.

L’industria serica italiana alla fine del Cinquecento deteneva un vero e proprio primato in Europa e agli inizi del Novecento la seta prodotta in Italia rappresentava circa l’80% assumendo proprio a Napoli proporzioni notevoli per le opportunità di crescita.

Le seta era un prodotto ricco e per ricchi, utilizzato come dono nelle famiglie reali oppure per gli abiti del clero e in tanti altri paramenti e vesti, era usata nelle chiese, sulle pareti, negli apparati funebri. A Napoli l’arte della seta fu introdotta dagli Ebrei nel VI-VII secolo a partire dalla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin, primo nucleo degli artigiani ebrei, ed ebbe una lunga evoluzione.

A mettere ordine nella lavorazione penserà Ferrante dì Aragona con l’intento di nobilitare Napoli mettendola alla pari delle altre grandi città italiane. C’è dunque necessità di regole, vengono creati gli atti delle Corporazioni, un tribunale che aiuti nel dirimere le questioni, vengono chiamati dal re maestranze da ogni parte d’Italia per seguire nel praticantato gli artigiani napoletani.

Nel seicento il boom economico va di pari passo con la crescita demografica, si aprono centinaia di botteghe legate all’arte della seta con il tessitore, il tintore, segmenti di produzione in parte slegati ma comunque uniti per la medesima produzione che creano così una sorta di distretto. Gli artigiani della seta avranno molta parte nella rivolta di Masaniello, lo stesso Genoino era collegato all’arte della seta.

Alla fine del’600 riprende la presenza di colori forti, stoffe leggere che nulla hanno a che vedere con le stoffe auroseriche che si vedono nei paramenti sacri. Si tratta di una produzione francese che segue le mode annuali in voga sul mercato. Così si tenta di captare maestranze francesi per le lavorazioni ma non si riuscirà ad andare molto al di là delle imitazioni. Alla fine del’ 700 cambia la produzione che diventa meccanizzata e questo tipo di lavorazione non fa presa a Napoli che non aveva un passato industriale. Sarà per questo motivo che il sovrano sposterà la produzione a San Leucio, storia che acquista particolarità e importanza a sé.

Tra i colori particolarmente preziosi vi era il nero napoletano che aveva la caratteristica di non diventare pardiglio (rosso) ma rimaneva lucido e brillante ed in generale la seta napoletana e quella della costiera amalfitana erano particolarmente pregiate perché costituite da fili sottilissimi.

La sede della corporazione della seta fu la Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo a via S. Biagio dei Librai; la chiesa è legata alle esigenze dei consoli della seta (il consolato dell’arte della seta fu istituito a Napoli nel 1465) che ampliarono il conservatorio che ospitava le figlie dei tessitori poveri di Napoli, unendo questo ad un palazzo del principe di Caserta Acquaviva.

Della preziosa produzione di sete napoletane restano broccati e damaschi, cannellati, diaspri disegnati con tralci fioriti, grappoli d’uva, arabeschi oggi conservati in chiese e musei in città come ad esempio nella sala degli arredi sacri a San Domenico, nel Museo del Tesoro di San Gennaro.

L’industria della seta dopo l’utopia di San Leucio alla fine del ‘700 tramontò col sopraggiungere della rivoluzione industriale. 

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