Indietro nel tempo tra mummie, papiri e coccodrilli
Era il 1803 quando viene documentata per la prima volta la presenza di un reperto archeologico egizio all’interno delle collezioni del Museo di Napoli. Quel reperto era il Naoforo Farnese che accoglie i visitatori in una delle sezioni più interessanti del Museo Archeologico Nazionale.
Non si sa con certezza quali furono le circostanze della sua acquisizione, tanto meno la sua provenienza, , ciò che è assodato è che il suo arrivo è inseribile in quella temperie culturale che accoglieva le antichità egiziane interpretandole come fonte di ogni arcano sapere.
Si tratta di un personaggio inginocchiato che regge un tabernacolo (naos) nel quale è visibile l’immagine del dio Osiride mummiforme, il personaggio scolpito è dunque un fedele del dio dal nome Uahibramerineit inciso sul pilastro dorsale insieme ai suoi titoli.
Nel rinnovato allestimento è stata riutilizzata, a memoria del passato, una vetrina originale del mobilio adoperato nel progetto di allestimento di Arditi nel 1821 che si ispira allo stile “retour d’Egypte” che si diffonde in Europa dopo la spedizione napoleonica in Egitto. Nella sala XIX compare l’unico esemplare di statua di Imhotep come scriba, opera in quarzite rossa, roccia dalla forte componente simbolica solare ma molto difficile da lavorare. Imhotep è passato alla storia per essere stato colui che progettò il primo monumento costruito completamente in pietra, ovvero la piramide a gradoni del re Zoser a Saqqara (2667-2648 a.C.). Non potrebbe mai mancare in una collezione egizia una statua di sfinge: dei quattro esemplari appartenenti alla collezione del MANN quella esposta nella vetrina 25 è quasi completa anche se molto danneggiata.
Appartenente alla collezione Borgia (che compone parte dell’ossatura dell’intera raccolta), una delle sculture più interessanti è il monumento di Amenemone, un blocco sul quale sono realizzate in rilievo 22 figure mummiformi che rappresentano il titolare del monumento, i congiunti e le mogli; ogni figura ha inciso il nome, funzione e grado di parentela di una famiglia evidentemente prestigiosa, considerato che Amenemone era soprintendente ai lavori nel tempio di sua maestà e capo dei Megiai, corpo di polizia del Nuovo regno.
Un frammento del papiro originale che conteneva il libro dei morti di Khonsu è esposto nella vetrina 35: in geroglifici corsivi che si leggono in senso retrogrado, si racconta di quello che era il testo religioso più importante della tradizione faraonica, 175 capitoli che servivano a proteggere e sostenere il defunto nell’aldilà.
Particolare nel mondo egizio è il ruolo dei piccoli Uscebti, immagini del defunto che lo sostituivano nel caso fosse chiamato a coltivare i campi nell’aldilà, irrigare le rive, portare la sabbia da Oriente ad Occidente, pratica che trova spiegazioni nell’arruolamento della popolazione per varie attività. Nelle vetrine se ne osservano moltissimi, tra cui la cassette porta-uscebti di Mutemula, cantatrice di Amon, elegantemente decorata; la cassetta napoletana proviene dalla collezione Picchianti, ancora un’altra costola della raccolta, riportata in Italia ancora con una parte delle statuette che conteneva.
Nella vetrina 32 si nota una piccola coppetta in terracotta con una iscrizione dipinta che recita “cumino, latte addensato, miele” ovvero un rimedio naturale che si ritrova nel grande Papiro Medico di Berlino, prontuario medico raggruppato a seconda delle malattie che devono curare. E’ probabile dunque che la coppetta appartenesse ad un defunto che in vita aveva sofferto di attacchi di tosse.
Tra i reperti più noti dell’antichità egizia vi sono certamente gli scarabei posti sul cuore dei defunti tra i bendaggi affinché evitassero che il cuore testimoniasse contro il defunto durante il giudizio finale (se ne vede uno della collezione Picchianti nella vetrina 48).
Teste umane, piedi, mani costituivano i pastiche ottocenteschi riportati in Europa dai viaggi nelle terre del Nilo a testimonianza di aver viaggiato nella culla dei faraoni e delle mummie. Ed infatti di questo si tratta, ovvero di parti anatomiche mummificate contenute in campane vitree ed utilizzate come souvenir (vista la scomodità di mettere una mummia intera in valigia!). Oltre alla campana con piedi e sudario della collezione Acquarulo Canettole, il Museo Borbonico possedeva anche altri frammenti umani dei quali sopravvive solo una testa… piuttosto spaventosa.
Molto noti sono i vasi canopi esposti nella vetrina 62, con le teste dei quattro figli di Horus, si tratta di contenitori in cui venivano posti gli organi interni del defunto estratti durante il processo di imbalsamazione e mummificati a parte; sicuramente tra i reperti più attesi e che destano curiosità e fascino i sarcofagi antropoidi riccamente decorati in cui è possibile vedere le mummie all’interno: tra queste risalta certamente la mummia di coccodrillo mummificato con bende in tessuto a trama larga, foglie di palma e corde. I coccodrilli erano animali venerati perche collegati al dio Sobek e alla fertilità del fiume Nilo ed anche temuti perche feroci predatori.