Ognissanti: il culto campano dei “cunti”

Il racconto dell’anima profonda dei Picentini, Alburni e Irpinia: storia e leggenda della messa dei morti

Oggi si chiamerebbero leggende urbane. A differenza di quelle attuali, che in fondo sono sradicate, lontane dall’anima profonda della nostra terra, quelle di una volta – che ancora sommessamente qualche vecchierella racconta ai nipotini stufi delle emozioni standardizzate dei film horror americani – sembrano poggiare le loro solide radici in un patrimonio culturale comune che, quasi, pare ancestrale.

Tra le più affascinanti storie di fantasmi è quella della “messa dei morti”. Sebbene tra le varie aree della Campania vivano e sopravvivano dettagli autoctoni e territoriali della vicenda, il canovaccio del “cunto” è sempre lo stesso. Gettonatissimo in tutta l’area che fa da spina dorsale alla regione, a cavallo tra i monti Picentini, gli Alburni e le selve dell’Irpinia.

Una donna (più raramente un uomo), sulla cui fede e buona fede si può mettere la mano sul fuoco, torna tardi dall’attendere le sue faccende. Si tratta, quasi sempre, di gente che s’è attardata nei campi e che, stanca del cammino notturno e in cerca di momentaneo ristoro alla fatica, si affaccia in una cappelletta (o nella chiesa del paese) che stranamente è illuminata e\o aperta. Qui, il protagonista della vicenda si introduce all’interno del tempio e scopre decine e decine di persone, eteree e soffuse, che pregano mentre un sacerdote – volto di spalle – consacra l’assemblea. Tanti sconosciuti inquietano il viandante che, in cerca di volti amici, incrocia il suo sguardo con quello del “compare” morto poco tempo prima. “Che facite ccà? Chesta è ‘a messa d’e muorti. Jatevenne prima ca se gira ‘o prevute se no rumaniti ccà cu nuje”.

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