Il fascino senza tempo di uno degli edifici del centro storico della città di Napoli
La testa di un cavallo che svetta al centro del cortile; un portale che, al pari della copertina di un libro, racconta un omaggio a Re Ferdinando e alla città di Napoli; il fascino senza tempo di uno dei rari esempi del Centro Storico partenopeo dove si fondono elementi tardogotici e rinascimentali.
Stiamo parlando di quella che fu l’abitazione di Diomede Carafa, primo Conte di Maddaloni e autentica personalità di spicco della Napoli aragonese.
Il Palazzo sorge al numero 121 di Via San Biagio dei Librai proprio nei pressi della chiesa dedicata ai Santi Filippo e Giacomo e venne ristrutturato nel 1466 con lo scopo di ospitare i reperti delle varie fasi di antichità napoletane, accorpando e ristrutturando edifici preesistenti.
PORTONE. Il suo portone ligneo, restaurato grazie ad un intervento dell’Associazione Dimore Storiche Italiane con il sostegno di Ferrarelle, Museo Cappella Sansevero ed altri soggetti, rappresenta un caso estremamente raro di conservazione, poiché ha attraversato, pressoché intatto, oltre cinque secoli di storia.
Gli interventi di pulitura e consolidamento hanno fatto riemergere tutta l’originaria ricchezza di particolari decorativi delle dodici formelle in essenza di leccio e delle strutture portanti in rovere e castagno del portone. Sono anche state recuperate alcune tracce del colore originario, consentendo di apprezzare nuovamente il rosso delle fasce orizzontali degli stemmi incisi e di tutti i dettagli, finora celati sotto spessi depositi di materiale eterogeneo.
Il portone ligneo è collocato all’interno di un portale marmoreo, risalente anch’esso alla seconda metà del quattrocento, che rappresenta uno dei primi esempi di struttura architravata di stile ionico presenti a Napoli.
CAVALLO. All’interno del cortile è visibile al centro, collocato su un piedistallo, un’enorme testa di cavallo in terracotta. Si tratta in realtà di un calco, in quanto l’originale è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In questa opera è racchiusa parte della storia della città di Napoli. Un cavallo rampante sulle zampe posteriori, dipinto di oro e rosso, era infatti il vessillo che sventolava sulle mura inviolabili della città. Per quattro mesi, Napoli riuscì a respingere gli attacchi di Corrado di Svevia, secondogenito di Federico II, che, quando finalmente riuscì a conquistare la città, per rammentare al popolo che era riuscito nell’impresa impossibile, ordinò di porre delle briglie al cavallo e fece scolpire sulle redini un distico in latino che recitava: “Caval sfrenato, al freno ora è soggetto: lo doma il Re partenopeo perfetto”.
Il cavallo rampante divenne l’emblema del Seggio Capuana, ma fu scelto come immagine anche dagli Svevi e durante Regno delle Due Sicilie e, ancora oggi, rappresenta il simbolo della Città Metropolitana di Napoli.
La leggenda, tuttavia, racconta che quella testa di cavallo altro non è che l’unica parte che si era salvata di quel maestoso cavallo di bronzo, scolpito da Virgilio, a cui si attribuivano particolari poteri. Bastava infatti che gli animali girassero tre volte intorno alla statua per ristabilirsi dai malanni e tornare più vigorosi di prima. Un culto, quello della benedizione degli animali, che oggi si ripete in occasione della ricorrenza di Sant’Antonio Abate, che la Chiesa celebra il 17 gennaio. Fu proprio a causa di questi poteri sovrannaturali che, con l’avvento degli Angioini che mal tolleravano le superstizioni pagane, il bronzo della statua venne fuso per costruire le campane del Duomo di Napoli, mentre la testa rientrò, non si sa come, nelle disponibilità di Lorenzo il Magnifico, il quale la regalò a Diomede Carafa che la posizionò nel cortile del suo palazzo, tanto è vero che, con il passare degli anni, l’edificio assunse la denominazione di “Palazzo del Cavallo”.
Fu proprio un discendente di Carafa a rafforzare questa tesi facendo scrivere una lapide in latino, accanto al capo mozzato del cavallo virgiliano, che così recitava: “Quale sia stata la nobiltà e la grandezza del corpo / la testa superstite mostra / Un barbaro mi impose il morso / la superstizione e l’avidità mi fecero morire / il rimpianto dei buoni accresce il mio valore / Qui vedi la testa / le campane del Duomo conservano il mio corpo / con me perì lo stemma della città / Sappiamo gli amatori di queste arti / che si deve a Francesco Carafa / questo corpo qualunque esso sia”.