Esempio architettonico dello splendore del viceregno spagnolo
In zona San Gregorio, a Spaccanapoli, all’incrocio tra via San Biagio de’ Librai e via dei Pastori, sul decumano inferiore greco-romano, si erige Palazzo Marigliano (detto anche Palazzo di Capua), memorabile edificio cinquecentesco che, come stabilì Roberto Pane, celebre architetto e storico dell’architettura: “vanta la più elegante facciata rinascimentale di Napoli, anche se le sale interne non conservano quasi nulla della primitiva forma, perché rifatto in età barocca”.
Napoli, che nel XVI secolo era la capitale del viceregno spagnolo, rappresentava un forte polo attrattivo per la nobiltà che, dalle province del Mezzogiorno, aveva scelto di spostarsi in città prediligendo soprattutto l’insediamento nel centro antico, cosa che era già avvenuta nel corso dei sessant’anni di regno aragonese.
Palazzo Marigliano fu riedificato tra il 1512 e il 1513 da Bartolomeo di Capua, Principe della Riccia e Conte di Altavilla, su una preesistente proprietà di famiglia. L’incarico fu affidato all’architetto cosentino Giovanni Donadio, detto il Mormando, che, ispirandosi prevalentemente all’architettura classica e a Leon Battista Alberti, progettò e ricostruì in quegli anni vari edifici in tutta Napoli. Fu lui per l’appunto l’autore della stupenda facciata tanto elogiata dal Pane e contraddistinta da tre livelli di ordini architettonici con l’alternanza di marmo bianco e piperno. Il primo ordine è caratterizzato da aperture rettangolari; il secondo da finestre ad arco a tutto sesto, scandite da lesene scanalate (fusti a pianta rettangolare appena sporgenti dalla parete, dalla funzione esclusivamente decorativa) con capitelli compositi poggianti su un alto basamento; il terzo ordine, definito anche “piano nobile”, è contraddistinto da cinque finestre dalle cornici marmoree sui cui frontali la scritta “memini”, presente anche sul portale, esorta alla conservazione e al rispetto della memoria. Sul soffitto di questo piano sono visibili i resti dell’affresco di Francesco De Mura, del 1750, che celebra il gesto eroico del Colonnello Raimondo di Sangro Principe di San Severo durante la battaglia di Velletri di qualche anno prima. Attualmente, il piano nobile è occupato dalla sede della Soprindentenza Archivistica della Regione Campania.
Le sostanziali modifiche interne furono apportate tra il XVIII e il XIX secolo. Il “portale mormandeo”, costituito da un’arcata trionfale tra due colonne ioniche, fu sostituito da un portale più semplice, ma più ampio e il basamento dello stesso fu modificato per consentire l’apertura di botteghe. Il cortile interno, con una scala a doppia rampa – sistemata prospetticamente sul fondo – che termina in una esedra neoclassica (incavo semicircolare sovrastato da una semi-cupola), fu ridimensionato a seguito di interventi di restauro eseguiti nel 1759 da un altro Bartolomeo di Capua, il ventesimo conte di Altavilla, e che gli conferirono l’attuale aspetto barocco.
Dalla doppia rampa si accede agli appartamenti in cui sono ancora visibili alcuni elementi della dimora rinascimentale, come le travi lignee, e gli affreschi di Giovan Battista Maffei, che si trovano sia nel primo ambiente del secondo piano, sia nella Cappella Gentilizia.
Nel 1759 il palazzo fu acquistato da Saverio Marigliano del Monte, il cui stemma campeggia nell’iscrizione collocata sopra il portone d’ingresso. Da qui, dopo averne varcato la soglia, due lapidi richiamano subito la nostra attenzione: la prima rievoca la figura di Costanza di Chiaromonte, sposa in seconde nozze Andrea di Capua, che aveva dimorato nel palazzo nel XV secolo; la seconda fa riferimento alla “Congiura di Macchia”, che prende il nome da Gaetano Giambacorta principe di Macchia, una cospirazione che fu ordita nei sotterranei di Palazzo Marigliano dalla nobiltà napoletana per rovesciare, senza successo, il governo vicereale spagnolo.
In tempi recenti, precisamente dal 14 settembre 1944 al 27 luglio 1957, Palazzo Marigliano è stata anche la sede de “Il Giornale” di Napoli, un organo di informazione liberale che vantava tra le sue firme le migliori penne del giornalismo e della cultura partenopea di quel periodo.
Il Palazzo viene aperto al pubblico solo in alcune occasioni o nelle Giornate del Fai.