La storia di Giovanna la pazza, la regina assetata di sangue e sesso

Cinquanta sfumature di grigio… nella Napoli medievale

E se mister Grey fosse una donna? Sarebbe insaziabile, assetata di sangue e sesso, pronta a sacrificare sull’altare della sua passione persino il figlio di una santa, ingiungendo così alla sua fama di arrivare – da Napoli – perfino in Svezia.

Giovanna è un’amante insaziabile, focosa e violenta. La sua alcova è una sala degli orrori. Ci entrano in tanti, nobili e lazzaroni. Ne escono in pochi, molti per la strada secondaria, quella che – secondo la parte truce della leggenda – collegava la stanza della Regina ai condotti sotterranei di Castelcapuano dove, in un dedalo di cellette, spuntoni e lame aguzze, tante furono le vittime. Di ogni estrazione sociale, figli del popolo e figli di santi, come lo svedese conte Carlo Ulfsson, per il dispiacere di mamma (santa) Brigida.

Della leggenda, che unisce sesso e sangue, si è occupato anche Benedetto Croce che dedica ai bisbigli di Riviera di Chiaia un gustoso paragrafetto in “Storie e Leggende Napoletane” (Ed. Adelphi 1990). Il filosofo cerca di contestualizzare i racconti tentando in primo luogo di dare un volto a Giovanna la Pazza. Chi è, in realtà la nipote di re Roberto (che regnò dal 16 gennaio 1343 fino al 12 maggio 1382) o la sorella di re Ladislao regina del ramo D’Angiò-Durazzo regnante dal 6 agosto 1414 fino al 2 febbraio del 1435? Secondo Croce la vulgata attribuisce a Giovanna I l’identità della Regina Mantide di Napoli anche se, come va consolidandosi anche in tempi più recenti, sembrerebbe più accreditata l’ipotesi che la vera “pazza” fosse Giovanna II che, a differenza della prima che godeva di buona stampa, era tratteggiata a tinte fosche da buona parte dei cronisti dell’epoca. Tutte e due le regine, però, sono storicamente unite da una certa disinvoltura amorosa, una grande sensualità ed una fortissima personalità. Non si diventa regine per caso, non ci si emancipa rimanendo a tessere la tela come la fedelissima Penelope. In un’epoca in cui, del resto, tutti i contrasti si risolvevano alla vecchia maniera: pugnale o veleno, Lucrezia Borgia docet.

Secondo alcuni ancora oggi, sulla Riviera di Chiaia e nei sotterranei di Castelcapuano, si sentirebbero le grida disperate degli amanti della regina folle, gettati via dopo l’amplesso regale. Come accadeva qualche millennio fa, nell’Europa della Grande Madre, quando la prostituzione era un’attività sacra e, si credeva, che le donne fossero ingravidate dal gioco dei venti. Benedetto Croce, nel riportare gli aspetti più boccacceschi delle storie su Giovanna scrive:

“Più tardi ascoltai particolari più giovenaleschi: la regina che andava in giro per le scuderie  a godere l’uno dopo l’altro di tutti i palafrenieri; la legge che ella, nuova Semiramide, comandò di bandire nel suo regno, facendo lecito il libito; la sua orrenda morte da Pasifae in abbracciamenti non già con un toro, ma con un cavallo, del quale, sazia degli uomini, si era bestialmente innamorata; e colsi sulla bocca del popolo la frase non elogiativa, detta di qualche donna di sfrenate voglie: E’ come la regina Giovanna”.

La leggenda di Giovanna, qualunque siano i suoi effettivi riferimenti storici, collega Napoli al florilegio di storie popolari, spesso basate su casi di cronaca, che in quel periodo invasero l’Europa. Da Erzbeth Bathory, la sanguinaria contessa d’Ungheria che dissanguava le vergini per restare giovane e fino all’adultera di Francia, Margherita di Borgogna.

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