Un piccolo scrigno tra il porto e il borgo orefici della città partenopea
Passeggiando fra il dedalo di vicoli del centro storico del capoluogo campano, sarà capitato a molti di trovarsi di fronte al famoso arco con l’orologio che spunta, tra i panni distesi, quasi fosse un ponte. Spesso però ci si chiede cosa sia quel bel pezzo di architettura che ci si trovava ad ammirare, ebbene davanti ci si presenta uno dei più antichi edifici medievali di Napoli: la chiesa duecentesca di Sant’Eligio Maggiore.
Infatti, incastonato tra il porto e il borgo orefici, a due passi dalla celebre Piazza Mercato, adiacente all’arco fa capolino un edificio religioso risalente alla fine del XIII secolo, spesso martoriato da terremoti ed incendi che hanno fatto si che nell’immediato secondo dopoguerra venisse ricostruito nell’ampia campagna che interessò gran parte degli edifici cittadini (tra i maggiori esempi abbiamo il complesso di Santa Chiara con la sua Basilica).
Tramite la trascrizione di alcuni documenti di epoca angioina, si è venuti a conoscenza delle origini di Sant’Eligio Maggiore visto che essi attestano di alcune concessioni di terreni, da parte della casata regnante, a tre cortigiani francesi. I tre personaggi, ministri di Carlo I d’Angiò, nel 1270 avrebbero costruito in quel luogo, in esatto stile francese duecentesco, la chiesa e il complesso ospedaliero che negli anni è stato reimpiegato con molte altre funzioni.
L’accesso all’edificio avviene sin dal ‘500 da uno dei lati lunghi e diventa suggestivo grazie alla strombatura alla maniera gotica, tipica dell’architettura ecclesiastica francese a cavallo tra il XI e il XII secolo, che abbraccia il portale. L’interno, destabilizzato da diversi disastri ed interventi di restauro nel corso dei secoli, è scarno ed essenziale come si pensava (erroneamente) fosse alla fine del XIV secolo: tre navate, arconi a dividerle, pilastri di tufo e finestrelle nella parte alta.
I lavori post conflitto mondiale, voluti dal governo italiano e curati dall’architetto Gino Chierici allora soprintendente ai “Monumenti della Campania”, ci hanno restituito un complesso sistema architettonico tanto da presentarsi come un mix di materiali moderni (blocchi di tufo e di piperno) e superstiti architetture medievali come il portale gotico che ne segna l’entrata, i contrafforti e le finestre esterne e l’abside con la sua cupola ad ombrello. Questi interventi eliminarono gli stucchi e i marmi che intanto nel corso del tempo avevano rivestito l’interno della chiesa. Durante queste operazioni affiorarono, al di sotto dei rivestimenti barocchi, molte testimonianze delle originali architetture, alcune delle quali lasciate tutt’ora a vista come alcuni archi e pilastrini di tufo.
Lo sguardo, una volta all’interno, viene catturato dalla parete di fondo: un’abside che prosegue il percorso delle tre navate restituendoci tre vani di cui uno maggiore al centro e due minori ai lati. L’ambiente centrale, coperta da una volta a raggi, è segnata da un’altissima finestra bifora che dà luce alla mensa religiosa; le due cappelle laterali rispecchiano, in piccolo, la maggiore ma con due campate con volte a crociera che recano al loro interno ancora tracce evidenti di pitture medievali.
Su uno dei pilastri, verso il lato ovest della chiesa, sorprende un’altra pittura, questa volta quasi interamente conservata, datata alla fine del XIV secolo che raffigura Papa Urbano V (1362-1370)recante nelle mani le teste di Pietro e Paolo, simbolo canonico della sua raffigurazione. La figura si staglia fiera, sul supporto di tufo, colorata di rosso, giallo e blu.
Curiosa e piena di fascino, infine, è la leggenda cinquecentesca che riguarda le due testine scolpite posizionate sotto l’orologio; esse raffigurerebbero una giovane fanciulla di nome Irene Malarbi ed il duca Antonello Caracciolo, nobiluomo senza scrupoli che, innamoratosi della ragazza che resisteva alla sua corte, fece condannare ingiustamente suo padre chiedendo, in cambio della sua liberazione, la resa al suo amore. La giovane Irene cedette al ricatto, ma denunciò tutto a Isabella di Trastamara, figlia dell’allora sovrano Ferdinando II d’Aragona, che condannò il Caracciolo prima a sposare la ragazza per riparare al torto subito per poi farlo decapitare.
A cura di Liberato Schettino