Da Italia ’90 alla favola della Serie A, la casa della Salernitana dove ribolle la passione
Figlio di Italia ’90, entusiasmò i tifosi già all’inaugurazione. Fu una speranza, superstiziosa forse; figlia però di anni e anni passati a masticar polvere in terza serie, prigionieri di sogni impossibili e di antichi ricordi. La storia dello stadio Arechi di Salerno è recente, eppure già carica di storia e di passione al punto che lo pone, di diritto, tra gli stadi della Campania più prestigiosi e interessanti.
L’impianto di via Allende era, ai suoi tempi, innovativo. Per molti versi, lo è ancora oggi. Senza pista d’atletica, i settori dello stadio sono stati costruiti in maniera modulare, separati l’uno dall’altro. Fu progettato volutamente fuori dal centro cittadino per valorizzare l’area tra il centro e la zona industriale e – soprattutto – per prevenire code e traffico, in entrata e in uscita dal campo, prima e dopo le partite.
Mandò in pensione il vecchio Vestuti, nel cuore della città. Prima di accomiatarsi dai tifosi, l’ormai vecchio campo esultò alla Salernitana di Agostino Di Bartolomei (all’ultima stagione da calciatore) che colse quella promozione in B che mancava da ventiquattro anni. Era il 1990, la Salernitana saliva, il Napoli di Maradona vinceva il secondo scudetto (allora la forte rivalità calcistica tra le due compagini era praticamente inesistente) e si attendevano con ansia le Notti Magiche di Italia ’90.
L’Arechi entrò in servizio alla fine dell’estate del 1990. Al cospetto dei granata neopromossi, il Padova del Soldatino Di Livio e del salernitano d’origine Nanu Galderisi. Fu un’annata storta, quella Salernitana sapeva solo pareggiare (riuscì a farlo anche in casa contro il clamoroso Foggia di Zeman che stravinse quel campionato). La retrocessione arrivò a Pescara, nello spareggio salvezza contro il Cosenza, vinto dai silani grazie a un gol estorto – ai tempi supplementari – dal talento del compianto Luigi Marulla.
I primissimi ’90 furono altalenanti, con una società in bilico, appesa ai destini del Foggia di Casillo (patron anche dei granata) e poi iniziò l’epopea che è la più cara ai cuori granata. Nel 1993, con i tifosi in sciopero, esordisce la Salernitana allenata dall’allora oscuro (ex) tecnico della Primavera del Foggia. Si chiama Delio Rossi, per i salernitani non c’è altro allenatore all’infuori di lui. Quella formazione è la filastrocca più cantata dall’Arechi: Chimenti, Grimaudo, Facci, Breda, Circati, Fresi, Ricchetti, Tudisco, Pisano, Strada, De Silvestro. Il campionato, in un crescendo d’entusiasmo, terminò con la promozione in B di quella squadra. Fu la prima volta che la Serie C sperimentò i playoff: la finale – dopo il confronto con la Lodigiani (0-0 all’Olimpico e 4-0 all’Arechi nel replay del match dopo la sospensione per maltempo) – si giocò al San Paolo di Napoli, contro la Juve Stabia di Roberto Chiancone. I granata – con due reti di Tudisco e un’altra di Breda – tornarono in B. L’anno successivo, un’altra grande avventura: dopo l’inizio stentato, praticamente senza acquisti di peso in estate (tra di loro un giovanissimo Stefano Bettarini, dalla Lucchese) quella Salernitana sfiorò il sogno della Serie A.
I granata, all’Arechi, divennero una delle realtà più interessanti della Serie B. Intanto la società era passata di mano, acquisita dell’imprenditore Aniello Aliberti. Nel 1997-98 tornò Delio Rossi. E, stavolta, l’Arechi centrò il sogno covato per cinquant’anni: il ritorno in serie A. Fu un’altra filastrocca, vincente: il gatto folle Daniele Balli, l’affidabile Ciccio Galeoto, il grintoso Vittorio Tosto, il révenant Ciro Ferrara (omonimo del più noto terzino di Napoli e Juve), il giovane salernitano Luca Fusco, i fratelli Giacomo e Giovanni Tedesco, il capitano Roberto Breda, il solido Edoardo Artistico, il talentuoso Marco Di Vaio, l’altro salernitano Ciro De Cesare.
Il 1998, però, fu anche un anno duro. Quell’anno ci fu la tragedia dell’alluvione di Sarno, i tifosi – in segno di rispetto al lutto e al dolore della gente – decise di rinunciare ai festeggiamenti.
La Serie A fu, sul fronte degli spalti, un’annata indimenticabile. Ancora oggi, a leggere la rosa di quella squadra, si fa fatica a immaginare che possa essere retrocessa. In quella formazione c’era, insieme a Marco Di Vaio che consolidò il suo talento, un giovanissimo centrocampista di ritorno dalla Scozia che sarà campione del mondo: Ringhio Gattuso. E poi David Di Michele, Ighli Vannucchi, lo stesso Breda che poi se ne andrà a Parma. L’immagine di quel campionato è la penultima in casa, ospite il Vicenza. Lo stadio stracolmo spinge la Salernitana all’unico risultato utile per restare in corsa: la vittoria. In quello stadio, già ci avevano lasciato le penne la Roma di Totti (2-1), l’Inter di Ronaldo (2-0), la Lazio stellare di Cragnotti (1-0), la Juventus di Del Piero (1-0).
Alla rete di Di Michele, replica l’uruguagio Mendez al 46esimo. Inizia l’assalto, sulle ali della generosità del pubblico, Ighli Vannucchi, all’88esimo, sigla la rete decisiva. Sarà un’illusione, perché a Piacenza i granata non riusciranno a strappare i tre punti necessari alla salvezza. Finirà malissimo, con un dolore che è ancora vivo oggi. Fu la tragedia del treno incendiato nella galleria di ritorno dall’Emilia, in cui persero la vita quattro giovanissimi: Vincenzo Lioni, Ciro Alfieri, Giuseppe Diodato e Simone Vitale.
I loro ritratti, insieme a quello dello storico capoultras Carmine Rinaldi, alias ‘O Siberiano, sono esposti in curva a ogni partita casalinga dei granata. Perché allo stadio, attorno a una passione e spesso anche al di là dei colori, si creano delle comunità umane fortissime.