Un piccolo piazzale “sgarrupato” è diventato uno dei luoghi più iconici della città
Napoli. Quartieri spagnoli. Chi lo avrebbe mai detto che nel giro di pochi anni, un piccolo piazzale “sgarrupato”, usato come semplice parcheggio, sarebbe diventato uno dei luoghi più iconici della città? E tutto questo grazie ad un murales, per giunta ritoccato, anche se quel “ritocco” si deve poi alla mano del noto street artist argentino Francisco Bosoletti. È vero che qui si trova il murales di Maradona ma qui, infondo, si trova il suo spirito tanto da essere diventato luogo di pellegrinaggio continuo, luogo della memoria, cimitero pagano.
Napoli ha fatto questo per il suo “Pibe de Oro” ed il mondo, attratto ed incuriosito, assorbe questa città per osmosi rimanendone profondamente affascinato. Il culto per il giocatore argentino non accenna a diminuire, anzi pare che aumenti considerando che nel 2024 e’ stato inaugurato, a pochi passi dal famoso murales, anche un museo a lui dedicato (www.museomaradona.com)
Facendo lo slalom tra bandiere, souvenires. friggitorie e chioschetti di limonate si arriva davanti a questo museo sulla cui porta c’è il volto di Diego che emerge dal buio come in un quadro di Caravaggio. Entriamo.
Pochi mq ed un affollamento di maglie, palloni, scarpette, cimeli vari e video di repertorio, ci catapultano nella storia e nella vita privata di questo genio del football. Una vita privata fatta di amicizie e profonde relazioni umane perche’ tutto ciò che è esposto appartiene ad una famiglia che è stata “la famiglia napoletana” di Diego, la famiglia Vignati. Saverio Vignati è stato, per 30 anni, custode dello Stadio San Paolo (attuale stadio Maradona) e sua moglie, Lucia, fu governante di Maradona dal 1984 al 1991. Per Diego lei era la “sua mamma napoletana”. Massimo Vignati è il figlio di Saverio e Lucia ed è lui che ha voluto fortemente questo museo per onorare la memoria di Diego e della sua famiglia.

“El Diego de la gente“, è scritto su una delle pareti del museo e questo “piccolo” argentino dai piedi fatati aveva imparato qui a bere, oltre al suo mate, anche il caffè di Napoli. Curioso trovare in una delle prime vetrine proprio questi due oggetti con un orologio al centro. Diego era un grande appassionato di orologi, li collezionava e ne portava sempre uno che segnava l’ora di Buenos Aires e l’altro l’ora italiana. Lui, sempre così legato alla sua Argentina nelle cui prime squadre, all’età di appena 16 anni aveva militato, prima quella de Los argentinos juniors e poi quellla del Boca. Due maglie di questo periodo degli albori ci parlano di lui fino a riconoscere poi finalmente quelle del Napoli. Le vetrine si tingono di azzurro, borse, tute di allenamento e le maglie con il tricolore e la fascia da capitano. Emozione pura! Tutte con il suo numero. Quello vincente. Quello ritirato perché “solo suo”. Il numero 10. Anche se, c’è una curiosità: nel museo c’è una sua maglia col n.16 che, all’epoca, si dava a chi partiva non titolare ma dalla panchina.
L’arrivo a Napoli di Maradona è stato rocambolesco, la fuga dal Barcellona e le mosse azzardate dell’ allora Presidente Ferlaino. Fu pagato 13 milioni (di vecchie lire) nel 1984 e Diego fu accolto in uno stadio gremito davanti ad 80mila tifosi in delirio. Da quel momento il suo nome si fuse come metallo prezioso nel suo numero 10 e Maradona divenne per sempre D10S.
Perché Maradona lo è stato davvero un Dio del calcio amico e rivale di un altro mostro sacro, quel Pelé brasiliano con il quale è ritratto in una bella foto con il simbolo di Italia ’90. Già, il mondiale della “discordia” dove Diego dovette (per uno strano scherzo del destino?) giocare contro l’Italia proprio a Napoli, nel suo amato stadio.

Fece scalpore il suo inequivocabile labiale alla bordata di fischi contro la sua nazionale ma lui era così: carismatico, passionale, un uomo con ideali ben precisi e con una idea del calcio “sencilla” che si può riassumere in quel suo “la pelota no se mancha!”
Nel museo è conservata la maglia ancora sporca di fango regalatagli dal grande Roberto Baggio ma, l’emozione più grande è vedere con i propri occhi, l’albiceleste argentina indossata in quel famoso mondiale di Messico ’86 quando, per quel goal di mano si parlò poi per sempre de “la Mano de Dios”.
Al centro del museo domina la bella statua in bronzo dello scultore Domenico Sepe, affidata con generosità a questi quartieri dove, forse, più che altrove, Diego vive ancora. Un altro miracolo del Pibe de oro. Sapevate voi che la base su cui poggia la statua ha la forma dell’Argentina? Un piccolo dettaglio che però no passa inosservato ed è carico di significato. Napoli, come Buenos Aires. Diego lo diceva così come appare evidente a quei tanti argentini che visitano questa città.
Prima di uscire, con il cuore gonfio di emozione, l’occhio si sofferma su un ultimo dettaglio: una medaglia d’oro coniata dal Vaticano appositamente per lui. Una medaglia per la pace a lui donata per il suo costante impegno nel sociale. Un uomo di sinistra di cervello, di piede, di fede come recita un’ altra iscrizione tra i video che lo vedono in compagnia di Papa Giovanni Paolo II e Papa Francesco.
E allora venite a conoscere “questo” Diego. Perché lui era (ed è) El Diego de la gente.