La prima persona che mi tende la mano al vernissage per la mostra postuma “Napoli Velata” del fotografo Oreste Pipolo, scomparso due anni fa, è la figlia Miriam, una donna sorridente e gioviale che, come lei stessa afferma, “ha tagliato la testa al padre” per quanto gli somiglia. Un tributo che si doveva a questo eclettico e controverso artista della fotografia napoletano, un autodidatta che amava la sua gente e la sua città.
C’erano proprio tutti a rendergli omaggio sabato 4 febbraio nella chiesa di San Severo al Pendino a via Duomo, location voluta per la mostra e, non a caso, a pochi metri dal laboratorio fotografico: amici, giornalisti – tra cui Domenico Iannaccone, autore e conduttore de “I dieci comandamenti”, la trasmissione che qualche anno fa su Rai3 che aveva avuto per protagonista in una puntata la città di Napoli con Oreste Pipolo a fare da “guida” –, parenti e anche alcune persone che si erano prestate a comparire nei suoi scatti, come una signora sulla sessantina dei Quartieri, fresca di messinpiega, che in un italiano stentato raccontava a tutti, con gioia e con orgoglio, la sua esperienza con il fotografo.
È un velo che cade sui volti sorridenti dei giovani che fanno il bagno a Mergellina, sulle opere d’arte, sulle rughe delle persone anziane e sulla rassegnazione degli uomini.
“Il vero mondo – diceva Pipolo citando Schopenhauer – si nasconde agli occhi dell’uomo. Il mondo vero si trova dietro a un velo. Con queste fotografie voglio mostrare e alludere a tante espressioni della città. Il velo è da sempre un simbolo di protezione. Velare i personaggi al margine, le statue fuori del circuito turistico è da una parte un rito propiziatorio e dall’altro un atto di denuncia. Stavolta mi sono affidato alle emozioni raccontate anche ne “La peste” da Curzio Malaparte e a quelle ispirate dal Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, che illumina una città che sopravvive tra desideri e tragedie”.