Jennifer è un travestito che abita in un quartiere popolare di Napoli in un’epoca – gli anni ’80 – in cui non esistono gli smarthpone e i social, eppure anche lei, come molti che vivono questo mondo digitalizzato, si inventa una vita che non ha, probabilmente la vita che vorrebbe, una vita piena di amore, cene, amici, passioni, mariti che non esistono e figli che non potrà mai avere.
Tutto quello che Jennifer ha a disposizione sono una radio e un telefono, uno di quelli con la tastiera a disco, e da quel telefono riceve una serie di chiamate che ci fanno immergere – prepotentemente – in un’esistenza, la sua, fatta di mancanze, abbandoni, ironia, promesse non mantenute, sorrisi e lacrime, scarpe con i tacchi e rose rosse.
Sono conversazioni tra solitudini, le più disparate, che non trovano una via d’uscita e che tutto quello che sanno fare è tenersi compagnia.
Dallo stesso telefono, ogni giorno, Jennifer chiama Radio Cuore Libero per dedicare una canzone d’amore a Franco, l’uomo che ama e che ha detto che la chiamerà. Allora lei lo aspetta tutte le sere, seduta al tavolo di una cena romantica che allestisce e poi disfa e nuovamente riallestisce, in una spirale che la porta dall’attesa all’ossessione e dall’ossessione alla disperazione.
E allora non resta che trovare consolazione nel suono della musica di Patty Pravo, di Mina o di Ornella Vanoni, che cantano di donne pazze d’amore e delle loro fragilità, di quel senso di vertigine che si prova al solo pensiero dell’uomo che si ama, anche se lui “la fa girar e la butta giù come fosse una bambola”.
Non possiamo non pensare che questa Jennifer, in realtà, siamo anche noi.
Siamo Jennifer quando ci raccontiamo storie per sopravvivere; siamo Jennifer quando facciamo di tutto per farci accettare; siamo Jennifer quando indossiamo una maschera e siamo Jennifer quando perdiamo la speranza e compiamo atti di violenza verso noi stessi.
“Le Cinque Rose di Jennifer”, l’esordio di Annibale Ruccello alla drammaturgia, si è rivelato da subito essere un testo “scomodo” e controverso, se non altro per la scelta di un protagonista che porta con sé un carico di implicazioni sociologiche piuttosto complesse e sempre attuali.
Sarà per questo che, l’allestimento voluto da Gabriele Russo – in scena al Teatro Bellini di Napoli fino al prossimo 10 novembre – ha ripreso fedelmente il testo di Ruccello e ci ha restitutito tutto il senso di angoscia che lo pervade, fino alla fine. Merito anche di Daniele Russo, che interpreta una Jennifer che si spoglia con stizza dei vestiti maschili e riesce a essere spontanea solo in calze a rete e tacco dodici. Una Jennifer che ci racconta di sé attraverso le telefonate e i suoi vari registri comunicativi: amica, confidente, seduttrice e disperata. Ma, soprattutto, nel confronto con Anna, interpretata da un grande Sergio Del Prete, che rappresenta il suo specchio, il suo alter-ego, una possibile proiezione del sui inconscio dalla quale risulta, inevitabilmente, schiacciata.
La transessuale Agrado nel film di Almodóvar, “Tutto su mia madre”, afferma che “una è più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di sé”. Ma essere autentici molto spesso non porta essere felici. E questo, Jennifer, riesce a spiegarcelo molto bene.