
Il Collana al centro della storia della città, dall’occupazione al sogno (incompiuto) di Pesaola e Jeppson
Riza Lushta, chi era costui? Era un attaccante che arrivò al Napoli, subito dopo la guerra, carico carico di speranze e ambizioni. Albanese, goleador a Torino con la Juventus. Con la maglia azzurra si bloccò, tanto che un giornalista dell’epoca – tra il serio e il faceto – ingarrò una disastrosa profezia: “Il giorno che Lushta segnerà, se ne cadrà lo stadio”. E, infatti, Lushta segnò finalmente contro il Bari, e lo stadio venne giù. Ci furono 114 feriti, solo un miracolo evitò il morto. Quello stadio era quello che all’epoca si chiamava “Stadio della Liberazione” e che oggi è l’Arturo Collana, al Vomero.
Tra gli stadi della Campania, la storia del Collana è forse quella più originale. Lo stadio di scorta del grande calcio a Napoli, nacque grazie a una sottoscrizione popolare e costò 800mila lire degli anni ’20. Oggi il campo, utilizzato per rugby e football americano, è circondato dalla pista d’atletica a otto corsie ed è al centro di un progetto di rilancio in vista delle Universiadi 2019. La capienza attuale è limitata a 12mila posti a sedere. Negli anni d’oro, allo Stadio del Vomero, migliaia e migliaia di spettatori (talora anche volti illustri come Aldo Fabrizi) assiepavano le tribunette e gli spalti.
Il Napoli ci giocò finché si chiamò “Stadio della Liberazione”. Non fu casuale la scelta di quella denominazione. Prima “Stadio del Vomero”, poi “Stadio XXVIII ottobre” e “Littorio”, i tedeschi lo utilizzarono per radunare prigionieri da trasferire nei campi di lavoro; così scoccò la scintilla delle Quattro Giornate di Napoli. L’ultima sua intitolazione rende omaggio ad Arturo Collana, giornalista sportivo che fu tra i più attivi (ri)fondatori del calcio napoletano già dal 1944.
Archiviata la guerra, in quell’impianto le divise furono solo quelle sportive. La scelta del Napoli di Lauro, di trasferirsi su al Vomero, fu – inizialmente – provvisoria. Lo stadio era inadeguato alla grande passione del pubblico, però, subito dopo la guerra, era l’unica struttura utilizzabile. Ci giocò, per più di dieci campionati, il Napoli in bianco e nero del Petisso Bruno Pesaola, dello svedese Hasse Jeppson, fenomeno svedese sbarcato a Napoli a suon di milioni, cento, negli anni ’50. Conobbe anche l’onta della retrocessione in B, un anno di purgatorio e poi il riscatto: a suon di gol s’impose Amedeo Amedei, il fornaretto che scrisse la storia dell’As Roma anteguerra e che poi visse una terza giovinezza a Napoli. Qui ci rimase dal 1950 fino al 1956, era il capitano dello squadrone con Pesaola (a cui cederà la fascia) e Jeppson, a cui poi si unì Luis Vinicio (‘o Lione, che poi diventerà rivoluzionario allenatore del Napoli e dell’Avellino). Nel 1959, gli azzurri traslocarono al San Paolo. Chiusero la loro storia con il vecchio impianto al Vomero. Che così divenne un centro sportivo per atletica e rubgy. Il calcio ci tornò, per un periodo, con l’esperienza del Campania, eterno progetto – anche questo incompiuto – di dare a Napoli una seconda squadra del cuore.
E Riza Lushta? Ci rimase solo una stagione, 1945/46: l’ultima disputata con la formula dei campionati regionali. Lo attesero e accolsero come il più grande bomber, segnò la miseria di sei gol. Fu quello che, oggi, si chiamerebbe “bidone”. Dopo aver fatto danni (in tutti i sensi), se ne andò all’Alessandra, antica potenza del pallone d’antan.