Artemisia Gentileschi a Napoli, storia di una passione

Giuditta e Oloferne al Museo di Capodimonte, un racconto d’amore e di violenza

Una delle opere d’arte più significative conservate al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli appartiene ad una donna, Artemisia Gentileschi, una delle rarissime firme femminili dell’arte italiana del ‘600. Figlia di un’artista, Artemisia è ben istruita e mostra una predisposizione naturale verso la pittura. A Roma grazie al padre Orazio può osservare da vicino molte opere che vari pittori producono in quel periodo, Carracci, Caravaggio, Guido Reni, il Domenichino. Nell’estate del 1611 Artemisia visita alcune opere ormai terminate come i soffitti dipinti di Santa Maria Maggiore, San Pietro, il Palazzo del Quirinale dove il padre lavora insieme a Giovanni Lanfranco, Agostino Tassi Buonamici e Carlo Saraceni.

Proprio Agostino Tassi sarà, secondo il parere maggiormente diffuso, la causa scatenante della forza che trasuda dal quadro di Giuditta e Oloferne conservato a Napoli. Quell’uomo la violentò e da quell’atto di violenza Artemisia riporta nella tela la vendetta di Giuditta che sgozza Oloferne.

Secondo altri, invece, i due si innamorarono ma il padre di lei scoprendo la tresca, iniziò a ritenere sua figlia vittima del suo amico traditore. Per punirlo lo fece arrestare e processare per stupro. Al Tassi Orazio aveva affidato la figlia per insegnarle come costruire la prospettiva in pittura ma ben presto era scoppiata la passione tra i due nonostante Tassi fosse già sposato e separato e sembra avesse anche un’altra storia. Insomma non era un personaggio raccomandabile e a quei tempi il sesso al di fuori del matrimonio era un’onta irrecuperabile.

Nonostante ciò Artemisia durante il processo sostenne di essere ancora vergine nonostante le prove ginecologiche affermassero il contrario. Artemisia fu messa sotto tortura dal giudice che la condannò allo schiacciamento dei pollici, affinché Tassi dicesse la verità. L’uomo nel vedere Artemisia soffrire, pur di salvarla, ammise di averla violentata. Da qui la storia diffusa al grande pubblico attraverso romanzi e film che hanno contribuito a fare della Gentileschi una figura di grande attualità, quasi un’eroina femminista ante litteram.

Dopo il processo Artemisia dipinge Giuditta che decapita Oloferne, opera dallo stile molto personale. La scena rispecchia forse lo stato d’animo della pittrice che si richiama per il realismo e il chiaroscuro a Rubens e Caravaggio. A prescindere dalla verdicità storica delle cause scatennati la scelta e la resa del soggetto resta comunque più che acclarao che Giuditta e Oloferne è uno dei capolavori dell’arte italiana del Seicento.

Il dipinto conservato a Capodimonte raffigura Giuditta nell’atto di tagliare la testa al generale assiro Oloferne che stava assediando la città di Betula. L’eroina ebrea è assistita dalla schiava Abra e a differenza dei pittori del Cinquecento e del Seicento che avevano riproposto il medesimo tema biblico, Artemisia sceglie il momento della vicenda più cruento, quando avviene la decapitazione.

È un’opera giovanile eseguita a Roma tra il 1612 e 1613, ne resta una versione agli Uffizi di Firenze, forse successiva, mentre la posizione rigida del braccio della Giuditta trova diretto riferimento nell’omonimo dipinto di Caravaggio; in Oloferne si ritrovano invece tratti del medesimo soggetto di Rubens.

Artemisia come Caravaggio soggiorna a Napoli tra l’agosto del 1630 e il novembre del 1637 influenzando notevolmente l’ambiente pittorico locale. Qui nel 1630 incontra Velázquez ed entrambi lavoreranno per la regina Maria d’Austria. Lo stesso anno Artemisia completa una grande tela d’altare che ha come tema l’Annunciazione, anch’essa oggi a Capodimonte. Non se ne conosce la provenienza, fu acquistato dal Real Museo Borbonico nel 1815, prima opera a figure grandi realizzata dalla pittrice a Napoli.

Dopo un periodo in Inghilterra dove lavorerà nuovamente col padre, Artemisia tra il 1640 e il ‘41 torna a Napoli dove rimane per il resto della sua vita. Si spegnerà qui nel 1653.

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