
Nella storia dello strumento più amato (e poi odiato) c’è un racconto senza frontiere della musica
Trema, il mandolino languido. Levantino, con (falso?) passaporto nordico. Lo strumento popolare per eccellenza, che del popolo ha finito per incarnare i difetti, più che i pregi. A metterlo all’angolo, a confinarlo negli androni polverosi della musica non è stata la retorica quanto la mancanza di composizioni a lui dedicate, su cui i virtuosi potessero esercitarsi, esibirsi, lanciarsi a raccogliere i doni della Musa.
Il mandolino è il figlio popolano della nobilissima famiglia dei liuti. Spesso s’accompagnava, in trio, all’aristocraticissimo violino e alla chitarra, prima che diventasse un feticcio piacione da falò. Gira con il coltello in tasca, come facevano Rugantino e i guappi di una volta. Non ha smesso la giacchetta color gianduia, né per il frac e nemmeno per un paio di blue jeans.
Il capostipite, appunto il liuto, ritornò all’Europa portatoci dagli Arabi che, a loro volta, l’avevano trovato in Persia. Fu uno scrigno preziosissimo, quella terra per i conquistatori venuti dal deserto. Tanta “grecità”, qui rifugiata, mitigò e arricchì l’Islam delle origini, dal tesoro delle scienze ellenistiche nacque il genio di Avicenna e di Averroè. Fu (anche) il liuto che convinse i primi musulmani a non aver paura della musica strumentale.
Tecnicamente, il mandolino è una variazione della mandola che a sua volta deriva dal liuto. Non è uguale dappertutto, sono attestate storicamente differenti versioni regionali dello stesso strumento. Il mandolino siciliano ha corde triple all’acuto e doppie al grave, quello senese ne ha cinque (o sei) semplici. Il mandolino padovano ha la cassa piccola, quello tedesco (sissignori) ha il fondo piatto, quello portoghese è grande e largo.
Il “re” è ancora quello napoletano: quattro corde d’acciaio, intonato alla maniera del violino, cassa bombata che conserva la forma di una pera. Caratteristico del mandolino è il tremolo, il suono vibrato ottenuto grazie al plettro (o alla “piuma”) che dà allo strumento la voce sua inconfondibile, quella che accompagna mille e più serenate, struggimenti d’amore in musica, idilli patrizi e plebei, lamenti medioevali, canti a figliola e le canzoni a fronna ‘e limone, il fado lusitano.
Fu, però, il protagonista indiscusso della musica “alta”, un sommo compositore quale è stato Giovanni Paisiello ha scritto due concerti per mandolino.
Ebbe così successo che lasciò presto le dorate corti e finì tra il popolo. Il mandolino, più che uno strumento, è ancor più di un’icona. Un simbolo di una cultura e qui il riferimento non può che andare a quella napoletana. Però certi si fanno ingombranti quando da emblemi passano a cliché. Sole, pizza e mandolino a intendere la leggadria dell’esistenza che si aggrava nelle paturnie da innamorati, che dell’allegrezza epicurea di chi sopravvive ogni giorno alla furia dormiente del vulcano e a quella instancabile del mare fa inno sciocco alla pancia, che della generosità e dell’eros fa strazio di core e sentimiento, facendo delle lacrime l’unica sua, forzatissima, ragione.
Il mandolino, perciò, stramazzò sotto i colpi di chi si era stufato della retorica delle cinquanta e più sfumature di povero ma bello che (ancora, sotto mentite e modernissime spoglie) va per la maggiore a Napoli. Ma che colpa ne ebbe, il mandolino?
Quella (vera) sarebbe di non aver destato abbastanza l’interesse di musicisti e compositori. Il mandolino non è strumento da orchestra, non è riuscito a superare indenne il suo stesso successo. Di lui s’accorse Gustav Mahler, alla ricerca del selvaggio, dell’ingenuo, dell’autentico e del popolare, che ne scrisse attorno la Settima Sinfonia. Che è musica difficilissima, non per tutti. Così come è difficilissimo, e non per tutti, scindere il grano dell’eredità culturale dal loglio delle esagerazioni che snaturano (nell’uno o nell’altro senso) la propria identità.