Sorge nel Cinquecento per volontà della Confraternita della Redenzione dei Captivi
La Chiesa di Santa Maria della Mercede e Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, conosciuta un tempo come Chiesa di Santa Maria della Redenzione dei Captivi, fu costruita nella seconda metà del Cinquecento per volontà della Confraternita della Redenzione dei Captivi – riconosciuta nel novembre 1548 dal Vicerè di Spagna Don Pedro di Toledo e nel 1549 da Papa Giulio III – che si occupava di riscattare i prigionieri cristiani catturati nel corso delle guerre contro i musulmani. In un primo momento la Confraternita alloggiò temporaneamente nella chiesa di San Domenico Maggiore, per spostarsi successivamente nel suolo donato dai Padri Celestini a San Pietro a Majella.
La Chiesa è dedicata anche a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori perché in questo luogo, all’età di 27 anni, stanco di esercitare la professione di avvocato, il Santo donò in voto alla Vergine Maria il suo spadino d’argento promettendo di dedicarsi alla vita ecclesiastica. Qui, in una vetrina accanto l’altare, grazie ad un recupero voluto dalla Reale Arciconfraternita di Santa Maria della Mercede e Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, sono custodite alcune sue reliquie tra cui la mitra, la sedia pieghevole, campioni di capelli, carne e cartilagini e, in passato, anche una fiala di sangue, la cui liquefazione avveniva il 2 agosto.
L’edificio ha avuto in tutto tre rifacimenti: il primo, datato 1706, fu ad opera di Ferdinando Sanfelice che modificò la facciata in stile dorico aggiungendone il basamento, le decorazioni e l’inserimento delle statue di San Monaco e Sant’Aniello; nel secondo, del 1715, Francesco Solimena introdusse nuovi elementi decorativi; l’ultima restaurazione, come testimonia una lapide posta all’interno, è del 1836.
La Chiesa presenta una pianta a navata unica con sei cappelle per lato, in stile dorico “semplificato”, sormontate da altrettanti archi a tutto sesto, ognuna con il proprio altare settecentesco.
Partendo da destra, nella prima cappella si può ammirare il dipinto raffigurante Sant’Anna, di Giuseppe Simonelli; nella seconda e nella terza troviamo due dipinti di Nicola Malinconico che rappresentano, rispettivamente, San Francesco d’Assisi e San Nicola di Bari.
La prima e la seconda cappella di sinistra ospitano sempre due tele di Nicola Malinconico: una rappresenta San Carlo Borromeo, l’altra, invece, San Francesco di Paola. La terza cappella conserva il dipinto raffigurante i Santi Celestino V e Antonio di Padova, di Giuseppe Simonelli.
La volta è a botte, con una cupola semisfera con tamburo, su cui si aprono altre finestre.
L’altare maggiore è opera del marmoraro Lorenzo Fontana, su disegno di Sanfelice, mentre i putti laterali sono stati scolpiti da Domenico Antonio Vaccaro, altro grande protagonista del ‘700 napoletano. In alto vi è posta una grande tela dal titolo “Il Riscatto degli Schiavi”, opera del 1672 di Giacomo Fanelli, che raffigura la Vergine con il Bambino in braccio sostenuta da un coro di angeli, mentre sotto sono raggruppati degli schiavi in attesa che si avvicini una nave per riscattarli.
Sulla controfacciata, invece, sono poste due tele del 1598 ad opera del pittore fiammingo Dirk Hendricksz, attivo a Napoli tra il 1571 e il 1618 con il nome italianizzato di Teodoro D’Errico, che raffigurano a destra “L’Angelo annunziante” e, a sinistra, la “Madonna Annunziata”.
L’annessa sacrestia è ricca di arredi, ricami, stampe e dipinti, tra i quali si distingue una tela di grandi dimensioni che rappresenta la Crocifissione, opera di un anonimo del 1600.
Sul retro della Chiesa si trova una Cappella dedicata alla Beata Vergine del Rosario, un tempo di proprietà del confinante Conservatorio di Musica di San Pietro a Majella. L’altare è in stucchi in oro a grande rilievo di fine ‘700; sono presenti tele ottocentesche e un organo ad armadietto in stato di abbandono. Molto bello è il pavimento a opera di Chiajese, un artigiano di Campobasso, fatto di mattonelle a fondo bianco con due lati di varie tonalità di verde.