Sono cinque quelle presenti in “Fiabe Italiane”
La Campania è stata da sempre una regione caratterizzata da una forte tradizione favolistica, tanto è vero che dai racconti che hanno avuto origine nelle sue province, sin dalle epoche più remote, sono nate molte delle più celebri favole per l’infanzia.
Nelle fiabe campane si trovano riferimenti ai classici della latinità, alla tradizione tramandata oralmente e alla nuova tradizione napoletana voluta dagli Angioini, dinastia che riorganizzò la cultura nella nuova capitale del Regno. Nel corso del loro dominio, a Napoli circolarono libri e uomini eruditi e i nobili francesi influenzarono gli usi locali contaminandoli a quelli orientali e a quelli delle altre regioni d’Italia per dare vita, appunto, ad una nuova tradizione di carattere colto e non più popolare, ragion per cui fu necessaria un’opera di “mediazione culturale” tra una tradizione orale, prevalentemente in dialetto, e la crescente necessità di mettere tutto su carta, con i limiti che questa nuova modalità narrativa poteva avere.
Tuttavia dobbiamo aspettare il 1636 per avere la prima – e anche la più celebre – raccolta di fiabe in lingua napoletana per opera di Giambattista Basile: “Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille”, tradotta in italiano da Benedetto Croce nel 1925. Nei secoli successivi, molte fiabe campane furono fonte di ispirazione per diversi autori, anche stranieri, come Charles Perrault e i fratelli Grimm, questi ultimi noti soprattutto all’estero per aver raccolto e rielaborato le storie della tradizione popolare tedesca nell’antologia “Fiabe del focolare” (1812-1815).
Prendendo esempio proprio da questo lavoro, nel 1956 lo scrittore Italo Calvino pubblicò “Fiabe Italiane” (I Millenni, Einaudi) oggi edito da Mondadori, un progetto di grande valore culturale in cui l’autore riscrisse e raccolse le fiabe della nostra penisola attraverso un lavoro di catalogazione e revisione regionale che voleva rendere accessibile “a tutti i lettori italiani (e stranieri) il mondo fantastico contenuto in testi dialettali non da tutti decifrabili”, orientando deliberatamente il suo lavoro verso due scopi: “rappresentare tutti i tipi di fiaba di cui è documentata l’esistenza nei dialetti italiani” e “rappresentare tutte le regioni italiane”, fino alla creazione di un’opera organica e universale.
Le fiabe campane presenti nella raccolta sono cinque in tutto, scritte in lingua italiana e piuttosto brevi, ma ricche di suggestioni e di elementi che rimandano a culture lontane anche dalla stessa Europa, come, ad esempio, ne “Le ossa del Moro”, un racconto beneventano piuttosto cruenta, diffusa anche in Abruzzo ma di origini orientali.
In queste fiabe anche gli animali – che spesso sono le bestie della fattoria, figure della vita quotidiana che rispecchiano una società fondamentalmente rurale – svolgono una funzione narrativa essenziale. All’inizio della fiaba gli animali sono ritratti semplicemente nella vita di tutti i giorni, ma poi, aboliti i limiti tra realismo e fantasia, è lo stesso animale a permettere quel “salto nel meraviglioso” necessario all’intreccio del racconto. Questo avviene perché magari hanno la facoltà di parola, come in “Comare volpe, compare lupo”, una fiaba napoletana già presente in Basile e nei fratelli Grimm; oppure sono dotati di poteri magici o doti straordinarie, come ne “La gallina lavandaia” (Irpinia) in cui una lavandaia vede una gallina chioccia con i suoi pulcini e pensa alla maternità al punto tale che partorisce essa stessa una gallina che diventa poi la sposa del figlio del re.
Un’altra fiaba irpina che riporta Calvino (della quale però esiste anche una versione veronese, abruzzese e romana) è “Cricche, Crocche e Manico d’Uncino”, la storia di tre ladruncoli che fanno una scommessa per scoprire chi sia il mariuolo più fino. Le fiabe campane si concludono con “La prima spada e l’ultima scopa”, una storia “dimenticata” della tradizione napoletana che parla di coraggio, abilità e astuzia.