Gianluca Papadia omaggia, con un meraviglioso racconto, El Pibe de oro
Nino mi aspettava a Spaccanapoli. Da quando mia figlia aveva deciso di lasciarlo, ci vedevamo sempre più spesso, sempre di nascosto, spesso al Bar Nilo. Nino l‘aveva scelto perché lì c’era un’edicola votiva con il capello di Maradona. «Ingegnè», mi diceva Nino, «se Diego ha fatto vincere uno scudetto al Napoli, allora può farci tornare insieme, a me e a figlia vosta». Anna, mia figlia, non avrebbe mai approvato che frequentassi un suo ex, così avevo iniziato questa storia clandestinamente. Nino una volta mi aveva chiesto se potevamo vederci per un caffè e, io, che l’avevo visto aggirarsi in casa nostra un paio di volte, avevo subito accettato.
Da emancipato cinquantenne radical chic quale ero, accettavo senza indugi che la mia primogenita quindicenne portasse a casa i suoi amichetti. Nino mi era subito piaciuto. Era diverso dagli altri. Era genuino, curioso, assetato di sapere, insomma, era vivo. Rivederlo, mesi dopo in quel bar, dimagrito, pallido, con gli occhi intrisi di apatia, fu uno choc per me. Consumammo il nostro primo caffè come due vecchi amici mentre Nino recitava il suo monologo sulla malvagità dell’animo femminile. Il ritratto che dipinse di Anna mi fece vergognare di essere padre e quando alla fine scoppiò in lacrime, l’imbarazzo era ormai diventato insopportabile. Agli occhi degli altri avventori ero un vecchio depravato che aveva sedotto e abbandonato il suo giovanissimo amante. Per uscire dall’empasse, e soprattutto vivo da quel Bar, mi proposi di aiutarlo a riconquistare quel mostro che avevo messo al mondo. Non c’erano dubbi: come genitore avevo fallito. Il metodo Montessori, la scuola attiva, i corsi di teatro-terapia, di yoga infantile, di letterature inglesi preadolescenziali con i quali avevo tormentato la mia povera bambina non erano serviti a nulla. Avevo obbligato Anna a studiare Shakespeare, Baudelaire e Bob Dylan solo per vantarmene con i miei amici e il suo cinismo era la giusta ricompensa alla mia sete di vanità.
Non contento di averle rovinato l’infanzia le avevo inflitto il colpo di grazia accettando quest’incarico in una città sconosciuta a circa seicento chilometri dalla casa in cui era sempre vissuta. Eravamo arrivati in treno da Bologna tre anni e mezzo prima. Quel viaggio era stato una delle peggiori esperienze della mia vita. Prima di partire avevo comprato il libro Io speriamo che me la cavo con l’intento di far breccia nei cuori delle due donne di famiglia con le storie raccontate dai bambini di una scuola elementare della provincia napoletana. Il piano prevedeva che fingessi di ridere a crepapelle mentre leggevo quel libro che mi aveva consigliato un collega di Napoli. Ero sicuro che mia moglie mi avrebbe chiesto di ripetere ad alta voce i passaggi più divertenti e così fu. L’effetto di quelle frasi sgrammaticate ma colme di malinconia fu devastante. Il piano perfetto era fallito nemmeno mezz’ora dopo la partenza con mia figlia in lacrime a chattare con le sue amiche e mia moglie chiusa in bagno con uno dei più violenti attacchi di coliche nervose che la storia umana ricordi. Ero deciso a scendere a Roma e riportarle indietro ma l’indisponibilità di mia moglie giocò a mio favore e così dopo le tre ore e trentatré minuti più lunghi della mia vita, finalmente arrivammo a Napoli.
Era una domenica di Giugno e mentre a Bologna avevamo lasciato un caldo sole estivo a Napoli, manco a dirlo, diluviava. «O patatern s’è scurdat» furono le prime parole che sentimmo nel nuovo dialetto, le pronunciò il tassista che ci portò al nostro nuovo appartamento. Se la scelta del libro del maestro D’Orta era stata una scelta abbastanza facile, scegliere l’appartamento dove andare a vivere era stato il frutto di un’elaborata pianificazione che al suo confronto il piano Marshall sembrava la lista della spesa di un single a dieta. Negli ultimi sei mesi avevo obbligato le mie due nuove segretarie napoletane a estenuanti video chat su whatsApp durante la visita di circa trenta appartamenti. Fissavo tutti gli appuntamenti alle 14 e, una volta chiusomi nel bagno del mio ufficio di Bologna e aver infilato le cuffiette del mio smartphone, mi godevo il tour virtuale dell’appartamento che si trovava a circa seicento chilometri di distanza. Avevo trovato il modo di visionare gli appartamenti senza andare e tornare da Napoli e, dopo un primo periodo di titubanza, questo modo un po’ bizzarro fu approvato anche dagli agenti immobiliari. Ero alla ricerca di un quattro vani, doppi servizi, panoramico, adiacente a una delle fermate della nuova linea metropolitana che la mia azienda stava costruendo in quella città.
Quando Tina, la mia segretaria, mi mostrò il panorama dell’appartamento che poi avrei scelto, rimasi senza fiato e il giorno dopo ero a Napoli a firmare il contratto in agenzia dove fui accolto come una vera webstar. I ragazzini in vestiti da cerimonia erano tutti molto eccitati di conoscere quell’uomo estroverso che trattava i migliori appartamenti della città seduto sul cesso del suo ufficio milanese – a Napoli tutto il Nord è identificato in Milano.
Quando arrivammo in Via Aniello Falcone, l’acquazzone era terminato e tra le nuvole filtravano i primi raggi di sole. Aprii la porta della nostra nuova casa con l’emozione di un ragazzino al suo primo appuntamento. Mia moglie, ancora scossa, volle subito usare il bagno mentre Anna era curiosa di vedere i mobili della sua stanza. Sapevo di avere il mio asso nella manica e decisi di giocarlo subito. Uscii sul terrazzino scoprendo con piacere che il sole non voleva mancare a quest’appuntamento.
«Anna vieni, voglio farti vedere una cosa» urlai nella speranza che sentisse pure mia moglie. Anna uscì con gli occhi fissi sul cellulare che, con quella luce, divenne inutilizzabile. Ho ancora impresso negli occhi il suo sguardo carico di stupore.
«Mamma corri, vieni a vedere» urlò con l’entusiasmo per la prima volta adeguato alla sua età. Marisa ci raggiunse esclamando: «Dal bagno c’è un pano…» e si bloccò davanti a quell’impetuosa distesa d’acqua. Avevo avuto ragione: quel panorama sortì l’effetto che speravo sulle ghiandole lacrimali di Anna e sull’intestino ballerino di Marisa. Ci abbracciamo tutti e tre sul quel terrazzino e l’unica nota stonata era il tassista, che da giù, sventolava il libro che avevo intenzionalmente lasciato sul suo sediolino. Da quel momento la tappa di avvicinamento al pianeta Napoli era stata tutta in discesa ed è per questo che le parole di Nino mi avevano sconvolto ancora di più.
Trovai Nino ad attendermi all’interno del Bar Nilo. «Avete visto che luce?» mi disse quasi per giustificare il mio ritardo. «E scale so’ l’anema e chesta città» risposi prontamente facendogli il verso. Era grazie a questo ragazzino che, dopo tre anni, avevo scoperto l’anima di questa incredibile città. «Ma come? Voi per scendere al centro vi prendete la metropolitana?» mi aveva detto una sera che c’eravamo incontrati al Vomero, il quartiere dove vivevo con la mia famiglia. Lui aveva un collage che aveva fatto con le foto di Anna che voleva farmi vedere ed io con una scusa ero sceso in strada a prendere un po’ d’aria. Dopo un po’ che passeggiavamo nella Villa Floridiana come due amanti in incognito gli avevo chiesto di spostarci a Spaccanapoli perché lì non mi sentivo al sicuro. Così quando aveva visto avviarmi verso la metropolitana mi aveva detto: «Uh Gesù e la Pedamentina che la teniamo a fare? Le scale sono l’anima di Napoli».
Grazie a Nino avevo avuto accesso a un lato di Napoli oscuro anche agli stessi abitanti. Un itinerario magico tra le zone più panoramiche della città, negato ai turisti meno attenti. Per me che ero vissuto sempre sui colli bolognesi, che non guidavo per scelta, che avevo la presunzione di progettare linee metropolitane per liberare le città bellissime come Napoli dall’incubo del traffico, scoprire la Pedamentina, il Petraio, le Scale di Montesanto, il Moiariello, Luigia Sanfelice, Santa Barbara, l’Olimpiano e il Sedile di Porto era stata un’esperienza quasi mistica. Quelle scale erano comunemente vuote e, senza il rumore di sottofondo dell’industrializzazione feroce, riuscivi a respirare la vera essenza di quella città che apriva il suo ventre accogliendoti come una mamma premurosa.
Fu solo grazie a un ragazzino, che secondo mia figlia era troppo noioso, che ebbi accesso a quel dedalo di viuzze incantate che alla minima variazione di luce assumevano forme e colori diversi. Da quel momento, il mio rapporto con la città era cambiato per sempre. Mi ero fatto talmente prendere la mano che una volta, spinto dall’insistenza di Nino, avevo percorso quelle scale anche in salita. Il principio d’infarto che mi aveva steso all’arrivo a San Martino con tanto di apparizione mistica del santo stesso a biasimarmi, mi convinse a giurare a me stesso di utilizzare sempre la metropolitana o le funicolari per risalire al Vomero.
«Hai proprio ragione» gli dissi accomodandomi di fronte a lui, «oggi schizzechea e quando promette burrasca Capri sembra ca può tuccà» aggiunsi farcendo la frase con i suggerimenti linguistici che Nino mi aveva dato in questi ultimi mesi.
«Su. Adesso dimmi che c’era di così urgente…» e vedendo che Nino esitava, trovai il coraggio per aggiungere: «Nino. Prima ti devo dire una cosa. Io ti voglio bene, te l’ho detto. Con te sto benissimo. Mi hai fatto scoprire più te di questa città che tutti i libri di storia che legge mia moglie. Non possiamo continuare a vederci così. Mia moglie mi controlla il telefono. Mi fa mille domande. Vuole sapere, dove vado. Insomma è convinta che io abbia un’amante. E Anna alimenta il suo sospetto. Le ho sentite confabulare sottovoce».
«Io credevo che voi aveste detto a vostra moglie che io ero un collega» m’interruppe Nino con il labbro tremante che annunciava un’altra crisi di pianto.
«E così le ho detto! Ti tengo memorizzato come Antonio».
«Ma io mi chiamo Gaetano».
«Ah… Pensavo che Nino fosse il diminutivo di Antonio».
«Mi chiamo così perché papà è un fan di Nino D’Angelo che in realtà si chiama Gaetano».
«Vabbè per Marisa e Angela tu sei il mio collega Antonio. All’inizio mi hanno creduto senza battere ciglio ma ultimamente, soprattutto mia moglie, è diventata sospettosa. L’ho sorpresa ad annusarmi la camicia, ti ho detto tutto. E’ convinta che la tradisca. Sai cosa mi ha detto l’altra sera?» Cercai di imitare la voce di mia moglie: «Ma com’è che esci sempre? Sei sempre stato buttato su un divano adesso invece in casa non ci sei mai». «Hai capito? E’ una vita che mi rompe le palle con questa storia, che sto sempre sul divano, che non esco mai e adesso che esco, invece di essere contenta, mi accusa di avere sempre qualcosa da fare fuori di casa? Cose e pazze come dite voi».
«E ma io senza di voi comme faccio?» sussurrò Nino quasi in lacrime.
«Su, adesso non piangere. Cerca di capirmi. Nun sacce cchiù addò m’aggia dividere».
«Spartere» mi corresse Nino mentre si soffiava il naso come una vedova inconsolabile.
«Devo sempre chattare con te di nascosto. Devo sempre ricordarmi di cancellare i messaggi più compromettenti e di lasciare quelli normali perché se la chat fosse vuota, Marisa s’insospettirebbe ancora di più. “Stai sempre con questo coso in mano. Ma tu non li odiavi i telefonini?”, mi ha detto mentre chattavo prima con te. “Parlo con Antonio” le ho detto mostrandole il telefono e lo sai cosa è successo? Anna ha preso il telefono dalle mie mani e ha controllato. “Confermo. Ci vediamo al solito bar gli ha scritto” ha poi detto a sua madre. Capisci, dove siamo arrivati? Se mia figlia scopre questa cosa, devo andarmene di casa». Le ultime settimane erano diventate un inferno. L’aria in casa nostra si era fatta pesante. Quando m’incontravo con Nino, avevo sempre paura che Anna o Marisa sbucassero all’improvviso. Mi guardavo sempre intorno con sospetto come se davvero avessi una relazione extraconiugale da nascondere. Per paura di essere seguito avevo iniziato a fare percorsi più lunghi per raggiungere Nino e quando stavo con lui, avevo preso l’abitudine di spegnere il telefono. Forse la situazione mi stava sfuggendo di mano e non potevo mettere a rischio il mio matrimonio per salvare uno sconosciuto dal primo di una lunga serie d’insuccessi amorosi. Dovevo troncare questa relazione, anche se farlo, mi sarebbe costato molto.
«Possiamo rimanere amici. Io un amico come te non voglio perderlo» esclamai convinto.
«Proprio adesso che avevo trovato una soluzione» disse Nino tra un singhiozzo e l’altro.
«“E guarda come sei dimagrito”, mi ha rinfacciato Marisa. Le ho provato a spiegare che era stata la scoperta delle scale a rimettere in moto il mio metabolismo ma lei non mi ha creduto. Quale soluzione?»
«Vi ricordate perché Anna mi ha lasciato?».
«Sì. Perché dovevate andare a Roccaraso con i vostri amici e per colpa tua, non ci siete più andati».
«A lei piace molto la neve, adora sciare».
«Colpa mia. L’ho portata in Trentino da quando aveva un anno. Camminava appena ma io la costringevo a prendere lezioni di sci perché sono un finto borghese fallito».
«La sua amica Bea possiede una casa in montagna. Ci avrebbe ospitato. Anna ci tiene molto all’amicizia. Chella è na uagliona e core».
«Sempre colpa mia. Gli ho fatto frequentare l’Associazione Scout Laici. Perché da povero comunista illuso devo essere anche ateo e anticlericale spietato. Nino scusami però, Anna ti ha lasciato e tu dici ancora che è na uagliona e core?».
«Sì perché io ci dovevo andare a Roccaraso. Lei ci teneva troppo e invece quella domenica il mio amico Sasà aveva avuto due biglietti gratis per il Napoli. Ho preferito Sarri ad Anna».
«Chi?» chiesi dall’alto della mia ignoranza calcistica.
«Sarri. L’allenatore del Napoli. Vedere giocare il Napoli di Sarri dal vivo era il mio sogno e grazie a una lavatrice l’avevo finalmente raggiunto», poi, vedendo la mia espressione confusa, aggiunse: «la mamma di Sasà ha comprato una lavatrice nuova e al negozio le hanno dato due biglietti omaggio. Adesso, però, é arrivato il momento di rimediare. Sono stato in agenzia. Due notti in pensione completa, skipass per tre giorni, autobus da Napoli andata e ritorno, 530€ tutto compreso. Ho dato anche l’anticipo e mandato la foto della ricevuta ad Anna».
«Era questo di cui volevi parlarmi oggi? E lei come l’ha presa?»
Nino mi mostrò orgoglioso la chat con Anna ma il suo schermo a caratteri normali per me era come se fosse spento, così lui lesse ad alta voce: «E dove l’hai presi tutti questi soldi? E’ un segreto! Wow. L’hai fatto veramente per me?Sì. E lei mi ha mandato una faccina col bacio. Avete Capito, Ingegnè? Quella con il cuoricino. Mi vergogno di dire che lavoro al pub, l’importante è che domenica mi pagano e lunedì passo in agenzia a saldare. Solo che non so se ce la faccio senza di voi. Se voi mi lasciate da solo, io non lo trovo il coraggio di bussare a casa vostra con la valigia in mano» e così dicendo si alzò, si avvicinò alla teca con il capello di Maradona e iniziò a pregare con gli occhi chiusi. Vederlo così disperato mi fece sentire un verme. Come potevo abbandonarlo proprio adesso? Ero seriamente preoccupato della sua stabilità mentale, così mi alzai e lo raggiunsi. Lui dovette interpretare male il mio gesto perché subito si voltò e mi abbracciò piangendo come un bambino.
«Va bene, va bene, ti aiuto» dissi soprattutto per staccarmelo da dosso e aggiunsi «a riconquistare mia figlia», per scrollarmi da dosso anche gli sguardi maliziosi dell’intera platea.
Uscii da quel bar con un senso di colpa nei confronti di quel povero ragazzo ancora più forte di quello che provavo per l’educazione che non avevo saputo dare a mia figlia. In questi mesi non avevo avuto il coraggio di confessargli che io avevo cambiato idea sul suo conto. Ero fermamente convinto che un ragazzo così sensibile e maturo non meritasse di sbavare dietro una persona così superficiale e snob come Anna. Lo avevo sempre saputo ma non avevo mai avuto il coraggio di confessarlo a Nino. Non credevo in Dio e nemmeno nel destino quindi non sapevo a chi incolpare del fatto che lunedì mia figlia avrebbe perdonato il suo ex. La notizia buona è che dovevo mantenere segreta la mia storia con Nino solo per un altro week end.
Il sabato successivo era dedicato al teatro d’avanguardia perché per ostentare l’appartenenza a una certa elite culturale, devi buttare i tuoi soldi in spettacoli incomprensibili tenuti molto spesso in teatri con poltrone scomodissime sulle quali, per dormire, devi essere un fachiro di lungo corso. Purtroppo dimenticai di spegnere il cellulare e le continue vibrazioni mi tennero sveglio per tutta la durata della rappresentazione. L’oscillazione continua della mia gamba destra, però non sfuggì nemmeno a Marisa che all’improvviso sussurrò al mio orecchio: «Chi è che ti manda tutti quei messaggi?».
«Non lo so. Saranno gli amici del calcetto. Oppure la chat del lavoro. Girano tante di quelle cazzate su questi gruppi» cercai di minimizzare mentre il tizio seduto alla mia sinistra già dava i primi segni d’insofferenza perché avevamo interrotto il suo sonnellino ristoratore.
«Potrebbe essere Anna che ha bisogno di aiuto» insistette Marisa che ormai già non sussurrava più. L’attore principale che indossava un vestito a metà tra un ufficiale delle SS e il capitano Kirk dell’USS Enterprise ci lanciò uno sguardo colmo di disprezzo, ma ormai Marisa aveva altro cui pensare. «Controlla quel cazzo di cellulare!» gridò infischiandosene di quella rappresentazione un po’ troppo ambiziosa di un olocausto interplanetario. Presi il cellulare con la mano tremante e ovviamente i messaggi erano tutti di Nino. «E’ Antonio. Hai visto? Anna sta bene» pronunciai senza audio rimettendo il cellulare in tasca. Marisa con un gesto felino tentò di strapparmi il telefono dalle mani. Cercai di resistere stringendo forte il cellulare nella mano destra ma lei mi ficcò un dito in un occhio e il telefono cadde sotto la poltrona davanti a noi. Orbo da un occhio, mi avventai lo stesso sul telefono ma Marisa mi piantò il tacco 12 della sua scarpa nella mano destra e dovetti mollare la presa. Marisa raccolse il mio cellulare sotto lo sguardo incredulo di attori e spettatori e dopo un rapido sguardo al mio display e, mentre in sala rimbombava imperterrito il Parsifal di Wagner in chiave electropunk, annunciò con tono impostato: «ventinove messaggi di Antonio!», sventolando il mio smartphone alla platea imbufalita. Quando la maschera ci buttò letteralmente fuori dal teatro, sbattendoci in faccia i nostri abbonamenti stracciati, le prime gocce di sudore cominciavano a gelarmi la schiena. Ormai la frittata era fatta. Marisa finì di leggere tutti i messaggi di Nino e mi riconsegnò il telefono.
«Ha detto di chiamarlo appena mi sarei addormentata» e rimase in silenzio fino a quando il taxi non ci lasciò sotto casa. Mentre pagavo il tassista, Marisa entrò di corsa nel portone.
Quando rimasi solo, lessi finalmente i messaggi di Nino. Era disperato, l’Asl aveva chiuso il locale e ‘o mast, come lui chiamava il suo titolare, non voleva pagarlo. Il suo piano era miseramente fallito. Mi ripeteva per filo e per segno tutto quello che gli avevo detto l’ultima volta che c’eravamo visti. Era giunto alla mia stessa conclusione: meglio non vedersi più. Si scusava perfino per tutti i problemi che mi aveva causato con mia moglie. L’ultimo messaggio era quello che mi aveva ripetuto Marisa. Salii in fretta le scale del nostro palazzo deciso ad affrontarla il più presto possibile ma, con mia enorme sorpresa, in salotto c’era pure Anna. Riuscii a mettere a fuoco anche con un occhio solo il quadretto familiare: erano sedute sul divano, abbracciate e piangevano disperate.
«Volevo dirvelo, lo giuro ma…» dissi cercando disperatamente una giustificazione plausibile. Avevo tradito la loro fiducia e meritavo di essere messo alla gogna.
«Papà ti ricordi di Nino?» m’interruppe Anna facendomi capire che la mamma aveva tenuto segreta la relazione epistolare tra me e il suo ex.
«Certo» risposi recuperando un certo aplomb. Marisa, forse, mi aveva già perdonato.
«Avevo deciso di dargli un’altra possibilità. Credevo si fosse davvero pentito, ma mi sbagliavo. Mi stava prendendo in giro. Dovevo saperlo che non avrebbe mai trovato i soldi per un weekend romantico sulla neve. Che stupida che sono stata a fidarmi di nuovo di lui». Tentai di abbracciare mia figlia ma Marisa la strinse più forte a lei. Ero sicuro che mia moglie piangesse perché pentita di aver sospettato della mia fedeltà, così tentai di abbracciarla, per dimostrarle che non provavo alcun rancore ma lei mi diede una spinta così forte che caddi all’indietro rovinando sul tavolino di cristallo alle mie spalle che si frantumò in mille pezzi.
«Vattene da questa casa» urlò Marisa.
«Ma mamma?» le chiese Anna incredula.
«Questo porco ha un amante. E sai chi è? Il suo caro amico Antonio. Che a quanto pare non è per niente un suo collega ma lavora in un pub! E’ disperato. Perché tuo padre ha deciso di lasciarlo» le parole di Marisa arrivarono alla mia mente, intorpidita dal forte dolore alla schiena, come se mia moglie avesse parlato da un pozzo molto profondo. Tentai di alzarmi ma la testa mi girava vorticosamente. Avevo le mani sanguinanti, un fischio fortissimo all’orecchio sinistro e il terrore di essermi rotto la spina dorsale m’impediva di respirare. Mi sentivo improvvisamente scaraventato in un film di Quentin Tarantino e, sperai con tutte le mie forze, che Nino entrasse in scena da un momento all’altro per ucciderlo con le mie stesse mani. Marisa La Sposa si era messa in piedi e sputava a memoria i ventinove messaggi del mio presunto amante. La memoria delle donne in queste circostanze raggiunge livelli sconosciuti alla scienza. Anna Elle Driver la interrompeva ogni tanto per chiarire alcuni punti che non riusciva a spiegare. Era sorprendente come la trama del film nella mente di mia moglie fosse già alla stesura definitiva. Le due donne più importanti della mia vita, come spesso avviene nei film Pulp, non si degnavano nemmeno di capire se Paolo Bill fosse ancora vivo.
«Nino» riuscii a farfugliare ottenendo un minimo di attenzione.
«Che c’entra Nino adesso? Te l’ho detto che non m’interessa niente più di lui», rispose subito stizzita mia figlia.
«E’ lui che mi ha mandato quei messaggi!» urlai senza speranza.
«Antonio è Nino?» disse La Sposa, entrata pienamente nel personaggio.
«Possiamo andare prima in ospedale? Credo di essermi rotto qualcosa» dissi prima di svenire.
Quella fredda Domenica di Febbraio la passai interamente al Pronto Soccorso e fra una Tac e una radiografia confessai ad Anna le mie frequentazioni con il suo ex fidanzato. Lei, come previsto, non la prese bene e nonostante una frattura al mignolo della mano sinistra, un buco nella mano destra, un’abrasione corneale all’occhio destro, una costola incrinata, la schiena tagliata in più punti e l’insopportabile acufene, scappò via mentre un chirurgo mi asportava l’ultimo pezzo di vetro dalla schiena. Avevo anche dovuto confermare a un agente di polizia la versione dell’incidente domestico fornita da mia moglie: ero inciampato nel tappeto disposto davanti al divano.
«Perché non mi hai detto niente?» mi chiese Marisa ormai risollevata dalla riscoperta della mia integrità morale.
«Scusa ho sbagliato» le sussurrai nel corridoio del reparto traumatologico. Il primario mi aveva sconsigliato di firmare e tornarmene a casa, omettendo che, essendo il reparto strapieno avrei passato la notte su una barella in corridoio. Marisa, nonostante le mie insistenze, non volle lasciarmi da solo e tutta la notte la passai a decantarle le doti di Nino e di quella meravigliosa città. Le raccontai minuziosamente dell’aria incantata che si respirava su quelle scalinate e come, grazie a quel meraviglioso ragazzo, avessi imparato a cogliere le sfumature incredibili del dialetto napoletano. Ridemmo tanto quella notte soprattutto delle situazioni imbarazzanti che avevo vissuto dinanzi all’edicola votiva di Maradona, nel bar dove servivano il caffè più buono di Napoli. Quando ormai il giorno stava per arrivare, Marisa mise fine a qualsiasi speranza di riposo confidandomi il vero motivo che aveva spinto nostra figlia a troncare con Nino: si stava innamorando di quel ragazzo e alla sua età non voleva ancora una storia importante. L’effetto del Toradol svanì e il dolore alla schiena tornò ancora più rabbioso di prima.
Mi dimisero soltanto il lunedì pomeriggio. Anna si era rifiutata di parlare con me al telefono e non rispondeva ai numerosi messaggi che le avevo inviato. Marisa cercava di rincuorarmi dicendo che, appena l’arrabbiatura le fosse passata, avrebbe ripreso i contatti con me. Nino, per fortuna, non si era fatto più sentire, il mio odio verso di lui non si era ancora placato del tutto.
All’uscita dell’ospedale trovammo una città diversa: cinica e fredda come non lo era mai stata; almeno questo era stato il commento del tassista che ci aveva accompagnato a casa. Anna ci accolse calorosamente, segno che la collera verso di me cominciava a svanire. Io tentai di scusarmi ma lei mi zittì immediatamente costringendoci a seguirla sul nostro terrazzino con i cappotti ancora addosso. Era il nostro piccolo rifugio e il gelo ci restituiva una Napoli diversa ma, proprio per quello, più ammaliante che mai. Ci abbracciammo proprio com’era successo tre anni e mezzo prima, con la consapevolezza che ognuno di noi aveva avuto una lezione da imparare da quella storia. Io che non avrei dovuto giudicare mia figlia dalle apparenze e che il freddo è un nemico dichiarato delle lesioni ossee. Mia moglie che doveva fidarsi più di me e che i tavolini di vetro dell’Ikea dovevano essere banditi da casa nostra. Anna che nella vita è meglio avere rimorsi che rimpianti e che all’amore, quando arriva, non puoi mai rinunciarci razionalmente.
L’unico che non aveva niente da imparare era Nino che il giorno dopo, alle 6:30 in punto, bussò alla nostra porta.
Stavo sognando di essere rimasto da solo nella mia stanza di ospedale, immobile nel letto, e, nonostante suonassi ripetutamente il campanello, nessun infermiere si degnava di venire a vedere di cosa avevo bisogno. Mi ci volle un po’ a capire che il suono del campanello non era provocato dal pulsante che stringevo fra le mie mani e mi buttai fuori dal letto con il cuore in gola risvegliando di colpo tutti i miei acciacchi. Dovevo essere ancora nella fase rem perché dallo spioncino vedevo un pupazzo di neve che mi salutava. Nino spuntò da dietro quel piccolo pupazzo di neve quando aprii la porta. Indossava un completo da sci di un paio di taglie più grosso mentre ai piedi, i doposci sembravano stargli un po’ stretti; tra le braccia stringeva un pupazzo di neve che assomigliava molto a un pagliaccio cattivo che avevo visto in un film horror. Anche se la mia parte razionale mi diceva che quello non era un sogno, ero convinto di essere ancora steso sotto il mio piumone anche perché la figura con le sembianze di Nino che avevo davanti, continuava a ripetermi: «Ingegnè, sta nevicann». Io ridevo, assecondando il delirio ipnotico che il sovradosaggio di antidolorifici aveva causato alla mia fragile psiche. All’improvviso arrivò un freddo polare: avevo i piedi ghiacciati e non riuscivo a smettere di far battere i denti. Forse le analisi strumentali non avevano rilevato qualche problema più grave e ora stavo morendo, vittima di una malasanità italiana sempre troppo sottovalutata, oppure non ero mai uscito vivo da quel maledetto ospedale e tutto quello che avevo vissuto dopo l’incidente, era uno scherzo della mia mente. La visione di mia moglie in vestaglia mi riportò alla realtà. Marisa mi afferrò per mano e mi portò fuori dalla pozzanghera ghiacciata che il pupazzo di neve, lasciato maldestramente da Nino ai miei piedi, aveva creato sul pavimento.
«Nino ha detto che non nevicava così forte dal 1956» pronunciò mia moglie quando l’aureola della madonna era ormai sparita dalla sua testa.
«Che culo» mi lasciai scappare prima di seguirla sul nostro terrazzino.
Anna e Nino erano abbracciati e si godevano quello spettacolo unico. Fioccava così forte che sembrava di essere in Trentino. Nemmeno a Bologna avevamo visto mai una nevicata del genere e l’unico coglione a essere ancora in pigiama ero io.
«Papà ma che fai? Sei uscito in pigiama» urlò mia figlia.
«L’ingegnere è abituato a queste temperature» aggiunse subito Nino mentre il gelo mi aveva ormai inibito l’uso degli arti inferiori.
«Vestiamoci e usciamo. Questo è un giorno storico!» disse Marisa venendo in soccorso dei miei poveri bronchi.
«Possiamo andare con lo slittino al Petraio!» esclamò felice Nino.
Anna indossò il suo completo da sci dei vecchi tempi e uscì da casa seguita da Nino che non stava più nella pelle.
«Ingegnè, che vi avevo detto? Il capello di Diego fa miracoli» disse Nino prima di richiudersi la porta alle spalle.
Napoli con i suoi colori, con i suoi panorami, con la sua storia e le sue superstizioni, con il clima mite e le sue mille contraddizioni, in tremila anni era stata testimone oculare di tantissimi innamorati ma quel giorno, il 27 febbraio di quel pazzo 2018, aveva chiesto al clima qualcosa di eccezionalmente straordinario per suggellare l’amore tra mia figlia e il mio migliore amico.
Tratto da “La Crociera ed altri racconti” edito Mreditori
La foto è di Guglielmo Farinelli.