Un pittore pieno di “verve”, pieno di colore e di Napoli
Lo vidi per la prima volta nel Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore fresco fresco di restauri. Era in mezzo a tante altre opere di dimensioni più grandi, paesaggi, marine, interni di chiese. Immagini di una società che velocemente cambiava dopo l’Unità d’Italia. Lui invece era piccolo, nascosto, un po’ timido, urlava solo colore. Era il 2016 e quello era “L’ altro Ottocento”, mostra dedicata alla pittura del XIX secolo con più di 70 dipinti.
Quel piccolo quadro che “urlava” era di Vincenzo Migliaro, si intitolava “Il Veglione di Carnevale“. È stato amore a prima vista.
Vincenzo Migliaro (1858-1938), scultore, pittore e incisore, fu allievo di Stanislao Lista e poi di Domenico Morelli. Cresciuto all’ombra di Gemito e Mancini, divenne “cronista” della Napoli più popolare, un po’ fuori dagli schemi dell’arte dell’Ottocento, niente pittura romantica, niente storia, niente paesaggi felici. Scelse il “vero” di seicentesca memoria e scelse sempre la luce e il colore della sua terra amata perdutamente.
Apprezzato da Èmile Zola che proprio qui lo aveva visto, fu paragonato, per il suo stile, addirittura a Pierre-Auguste Renoire. Ma lui non sapeva neanche chi fosse… Come tanti altri talentuosi artisti napoletani, ebbe modo di partecipare più volte alla Biennale di Venezia dal 1901 al 1928 e fu lì, probabilmente, che vide un tipo di Carnevale più “elitario” dove il protagonista era quasi sempre Arlecchino, forse la maschera più nota della Commedia dell’arte.
Tutti conosciamo Arlecchino, carattere sfrontato e vivace, ha il costume della gioia, tutti i colori dell’arcobaleno rattoppati in losanghe di stoffa. È un uomo misterioso, indossa una maschera nera e corteggia perennemente la sua Colombina. In questo dipinto però più che Colombina, lo si vede adulare una damigella elegante, tutta parrucca e parapallo.
Siamo a Venezia? No, siamo a Napoli! Una Napoli che semmai scimmiotta la città lagunare adeguandosi a delle tradizioni italo-europee sempre più alla moda eppure il suo aspetto popolare è tradito da un piccolo dettaglio.
Guardate bene a destra. La Napoli popolare, verace, è lì collocata, nella donna che danza al passo di tarantella, scalza, scugnizza, capelli raccolti. Mostra generosamente spalle e collo. Non indossa perle, il vero gioiello è la sua pelle di porcellana. Lei è la vera nobildonna, reale non artefatta, spontanea non impostata. Poi i colori. Da Arlecchino sembrano irradiarsi ed espandersi in piccole macchie, fuse e sovrapposte. La pittura è materica, esplode come raggio di luce. Il dipinto è di piccole dimensioni, sott’occhio sembra quasi un bouquet di fiori, manca solo il profumo. È un’opera bellissima e, ahimè, quasi sconosciuta, appartiene alla collezione d’arte della città Metropolitana di Napoli.
Nel dipinto è celebrato il Carnevale, festa antichissima, in passato molto sentita, che nasce, anche e soprattutto, come festa contadina. La nostra contadina balla al ritmo di tarantella. È lei il carnevale, è finito l’inverno, lei ora è primavera. Ma questo è un carnevale chiassoso fatto di colori e danze popolari e Arlecchino, con quella sua postura e sorriso furbetto sembra quasi un Pulcinella nostrano con la sua maschera nera in mezzo a un groviglio di gente divenuta “coriandoli”: puntini colorati su tela, sparpagliati ovunque come quelli in una piazza dopo la festa.
Si intravede anche Pierrot ma sono pochi, impercettibili dettagli. Il vero protagonista è il colore che danza la tarantella come la bella popolana.
Migliaro diceva “Nessuno può amare più di me questa strana e divina creatura chiamata Napoli“. Gli crediamo se anche Venezia è diventata, col suo pennello, una Napoli popolare che danza felice tra coriandoli sparpagliati.