Lo scavo alla Pisanella, un manovale imprudente e un amore maledetto
Quella sera nella taverna del centro antico erano rimasti in pochi, ma bastarono a raccontare a tutto il paese la storia che il buon Michele Finelli, manovale a giornata con il vizio di bere un po’ troppo vino, fra un bicchiere e l’altro, rivelò imprudentemente.
Qualche sera prima, esplorando uno dei cunicoli dello scavo alla Pisanella, aveva trovato quello che cercava il suo padrone e tutti quelli che dopo di lui disperatamente bramavano: un Tesoro d’argento e d’oro.
Era già da un po’ di tempo che scavavano alla Pisanella avendo trovato i ruderi di una Villa romana sotterrata dalla cenere e lapilli della grande eruzione del 79 d.C. che sconvolse tutta l’area vesuviana facendo migliaia di morti e distruggendo le prosperose città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti.
Il padrone, don Vincenzo De Prisco, non aveva badato a spese e fiducioso in un buon bottino che lo avrebbe ripagato dalle spese sostenute e magari arricchito, aveva assunto molti operai desiderosi di guadagnarsi la ricompensa promessa per ogni scoperta di valore fatta. Così la vigilia di Pasqua del 1895, nelle campagne di Boscoreale avvenne la fortunata scoperta. Era stato proprio Michele ad imbattersi nell’antica cisterna dove tutto intorno allo scheletro dell’uomo che aveva tentato una impossibile difesa, comparivano pezzi in argento decorati finemente e gioielli in oro ancora avvolti nel lacero sacchetto che li conteneva.
Michele risalito in superficie fece allontanare tutti gridando di aver sentito odore di mofeta (una fumarola velenosa prigioniera del terreno, vero incubo degli scavatori), per cui avvisato don Vincenzo, mandò a casa gli operai per l’imminente festività pasquale. Quella notte don Vincenzo accompagnato da Michele alla luce di fioche lanterne recuperò il Tesoro portandoselo a casa. Nei giorni seguenti mandò in avanscoperta sempre Michele, divenuto suo complice ma che aveva lautamente ricompensato, a Napoli nella Galleria di antichità dei fratelli Canessa, noti antiquari dell’epoca per verificare il loro interesse per vendere il Tesoro ai migliori offerenti. E così iniziò un sodalizio durato vari anni fra il nostro don Vincenzo e gli antiquari napoletani che portò alla vendita al banchiere Rotschild di Parigi di quasi tutto i pezzi ritrovati in quel fortunato scavo, ma anche nei successivi.
Si racconta che per farli uscire clandestinamente dall’Italia, i furbi napoletani escogitassero uno strano stratagemma: i pezzi divisi in più parti furono nascosti nelle borse delle biciclette dei corridori della gara Sanremo-Nizza, ma non si hanno prove certe ….è solo una leggenda tra le tante che questo Tesoro ha originato intorno alla propria storia. Il banchiere parigino regalò i pezzi comprati dal De Prisco al Museo del Louvre suscitando la curiosità dell’elegante e raffinato curatore di antichità romane Antoine Heron de Villefosse che volle venire in Italia a Boscoreale per vedere con i suoi occhi il luogo dove era stato rinvenuto il favoloso Tesoro. Fu tanto ardito da scendere anch’egli nei cunicoli dello scavo fino alla cisterna esplorata da Michele l’anno prima accordandosi con il De Prisco che nel frattempo aveva cominciato ad avere qualche “problema” con la giustizia italiana che aveva aperto un inchiesta, ma ormai il Tesoro era esposto al Museo del Louvre e lì sarebbe rimasto.
Intanto don Vincenzo De Prisco si godeva i suoi soldi girando per le grandi città dell’epoca e a Parigi incontrò la donna della sua vita la bella e giovane Sofia Kout che per amore decise di vivere a Boscoreale, un piccolo e provinciale paese dopo i fasti della Ville lumiere. Vincenzo e Sofia si sposarono il 25 maggio 1913 con una fastosa festa nel loro bel palazzo adorno di affreschi che emulavano quelli delle ville da lui scoperte e realizzate da grandi artisti. Ma la maledizione che a volte colpisce i grandi scopritori di Tesori nascosti, questa detta di Lucio Cecilio Giocondo visto che il Tesoro si attribuisce a lui, li colpì in pieno e in vari modi.
Vincenzo si ammalò di una grave forma di cancro e morì il 15 giugno 1921 avvelenandosi con l’arsenico. Sofia fu accusata dapprima di averlo istigato al suicidio e poi di averne usurpato i beni dai nipoti di lui che si sentirono derubati dell’eredità dello zio non avendo questi avuto figli da Sofia. Ma lei ne uscì innocente con una sentenza di tribunale, vendicandosi poi dei parenti del marito donando al suo medico curante il bel Palazzo con tutto quello che c’era, mosaici, affreschi e reperti vari dalle ville romane scavate dal consorte e conservati nei suoi depositi. Quando Sofia morì chiese di essere sepolta accanto al suo Vincenzo, nonostante tutto una scelta d’amore, che vince sempre anche con il destino