L’opera si trova nella Cappella del Santo Patrono di Napoli all’interno del Duomo
Non avevano certo vita facile i cristiani ai tempi di Diocleziano, soprattutto dopo l’editto promulgato dall’imperatore nel 303 d.C. attraverso il quale, oltre a revocare i diritti legali e ad imporre loro di adeguarsi alle pratiche religiose romane, come quello di offrire sacrifici agli dèi, si diede il via alle più feroci delle persecuzioni contro il Cristianesimo. Con questo proclama si ordinò la distruzione dei luoghi di culto e dei libri sacri, la decadenza dalle cariche pubbliche, la privazione del diritto di difesa rispetto a qualunque genere di accusa e la degradazione dei cristiani più ragguardevoli che potevano essere sottoposti a tortura; per gli schiavi cristiani, inoltre, l’impossibilità di diventare liberi.
Le persecuzioni ebbero diversa applicazione a seconda delle regioni, ma tutte combattevano ogni sorta di proselitismo con l’arresto e il supplizio (o martirio) dei preti e dei diaconi che, non solo avevano confermato la loro fede, ma la divulgavano in ogni dove.
Anche Gennaro, il Santo Patrono della città di Napoli che nel corso della prima metà del III secolo fu proclamato vescovo di Benevento, non restò immune alle persecuzioni e ai martirii.
Il più “famoso”, è la sua decapitazione che avvenne il 19 settembre del 305 nei pressi del Forum Vulcani, l’attuale Solfatara di Pozzuoli, e che si celebra ogni anno con il miracolo della liquefazione del suo sangue. Tuttavia, la storia ci racconta che San Gennaro fu vittima di altri supplizi.
Il primo martirio fu quello della torsione del corpo, ma Gennaro riuscì a resistere alle torture e non abiurò.
Il secondo gli fu inflitto dopo che Timoteo, prefetto e console di Diocleziano, lo fece accusare di proselitismo per essersi recato, in qualità di vescovo, presso i Campi Flegrei a portare conforto ad alcuni amici – tra cui Sossio, diacono di Miseno – che erano stati imprigionati perché predicavano il Cristianesimo. Gennaro fu condotto all’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli per essere ucciso dai leoni, ma questi, invece, si rifiutarono di sbranare il martire e si prostrarono ai suoi piedi.
Timoteo, allora, provò a rinchiuderlo nella fornace. Le fornaci erano delle caverne al cui interno venivano gettati i cristiani e fatti bruciare vivi. Gennaro fu quindi fatto rinchiudere lì dentro per un giorno intero, ma, quando la fornace fu aperta usci vivo e illeso.
Questo terzo martirio è mirabilmente rappresentato nel dipinto di uno dei massimi protagonisti della pittura europea del XVII secolo: Jusepe de Ribera. Il quadro dal titolo “San Gennaro esce illeso dalla fornace”, olio su rame, si trova nella Cappella dedicata al Santo all’interno del Duomo di Napoli, fu commissionato dalla Deputazione del Tesoro di San Gennaro al pittore spagnolo nel 1643 che lo terminò tre anni dopo, nel 1646.
L’opera, considerata dagli esperti una delle più belle del de Ribera per la plasticità dei personaggi, per la cura dei particolari e per la straordinaria capacità espressiva, è intrisa di naturalismo. San Gennaro, in abiti vescovili, esce dalla fornace ancora con le corde intorno al corpo, le guance rosse e i piedi nudi e gonfi. È appena scampato ala morte, quindi ha un’espressione stanca, lo sguardo quasi perso, rivolto in parte agli angeli disposti in un angolo superiore. Le fiamme vanno a intaccare quelli che sono i suoi aguzzini e, nel mentre circa dodici personaggi assistono alla meravigliati al miracolo, come il bambino dalla maglia rossa e la bocca aperta che ricorda le sembianze di un lazzaro, di uno scugnizzo, uno dei simboli ricorrenti nella pittura del ‘600 a Napoli.