Napoli. Un amore più forte della morte all’ombra di Sant’Anna

Nella zona dell’Arenaccia una delle chiese più interessanti voluta dal gentiluomo Nicola Pane

Nella zona dell’Arenaccia ci sono numerose piccole chiesette, nascoste e poco note, però molto interessanti dal punto di vista storico ed architettonico. Una di queste è Sant’Anna al Trivio: dentro il sacro edificio c’è una tomba testimonianza di una grande storia d’amore.

La Chiesa non deve il nome ad un incrocio di tre strade, come si potrebbe pensare, ma bensì a Odet de Foix, conte di Lautrec, che nel 1528 cinse d’assedio Napoli. Per vincere la resistenza della Città, il generale francese distrusse le condutture dell’Acquedotto della Bolla, che era la principale fornitura idrica. In questo modo l’acqua stagnante generò una pestilenza che condusse alla morte molti uomini, sia tra napoletani che tra i francesi. Lo stesso Odet fu una delle vittime. I resti mortali di questi poveri sfortunati furono poi gettati nella Grotta degli Sportiglini, nella zona di Poggioreale che in quel tempo era paludosa e lontano dal centro storico e successivamente sopra questa fu costruita la Chiesa di Santa Maria del Pianto. Rimase però nella toponomastica il termine Lotrecco (un Lautrec italianizzato) nonché Trivice per indicare tutta la zona.

La nostra Chiesa, dedicata a Sant’Anna, fu voluta dal gentiluomo Nicola Pane nel 1864. L’architetto incaricato dei lavori fu Filippo Botta che non ha lasciato molti lavori in Città. Molto apprezzato dai contemporanei, era noto soprattutto per la grande fantasia: spesso non rispettava i progetti e le sue costruzioni erano frutto di intuizioni legate ad improvvise idee che stravolgevano completamente i piani di lavoro. All’interno del piccolo edificio di culto c’erano anche due tele di Luca Giordano, il Battesimo di Sant’Agostino e Sant’Agostino e la visione dell’angelo, ora in custodia presso il Museo Diocesano Donnaregina.

Entrando in Chiesa, a sinistra della porta di accesso c’è un particolare monumento funebre che Filippo Botta volle dedicare a sua moglie Fortunata Vecchione, morta nel 1859. L’architetto e conte ottenne il permesso dalla curia di riutilizzare un sarcofago cinquecentesco. L’elegante cassa di marmo dai piedi leonini reca sul fronte un bassorilievo con due puttini dolenti che indicano un cartiglio. Al centro di questo c’è la scritta “Fui, non sum. Estis, non eritis. Nemo immortalis” ossia “Ero, non sono più. Siete, ma non sarete più. Nessuno è immortale“. L’amorevole marito commissionò poi un busto della moglie che fece apporre sopra il sarcofago e fece mettere in basso una lapide con una iscrizione a testimonianza del loro amore, reso così immortale.

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