‘O ritto e il teatro, il “rito” della morte di Carnevale

Dalle rappresentazioni nelle zone rurali della Campania alla commedia di Raffaele Viviani

Nonostante il nome tradisca un’origine precipuamente cristiana, il Carnevale è un’altra delle cento feste che ci sono state tramandate dalla devozione pagana.

Non occorrerà ricordare l’etimo del termine che indica la festa: è fin troppo noto che qui vi è nascosto l’addio alle carni, cibo da cui i fedeli si sarebbero astenuti per tutto il periodo della Quaresima, in ossequio al sacrificio di Cristo e al suo digiuno nel Deserto, però la celebrazione della festa è interamente pagana. Anche nelle sue rappresentazioni più peculiari che, nei nostri tempi che poco sopportano il rovesciamento delle convenzioni sociali, vanno perdendosi.

Nell’area picentina, e in tantissime altre zone rurali della Campania, si celebrava la recita de ‘o ritto (il detto) di Carnevale. Si trattava della rappresentazione della morte di Carnevale, identificato in un uomo grasso, gretto e sparagnoso. Dedito a ogni eccesso, avarissimo col prossimo. Muore, talora strozzato dalla sua stessa ingordigia. È lamentato, legandosi tal circostanza agli antichi riti che però, qui, vengono ribaltati. Se gli dei identificati nello Spirito del Grano (come Tammuz, per esempio) venivano pianti amaramente e onorati perché grazie a quel sacrificio sarebbe rinata la natura, Carnevale viene più beffardamente sfottuto e mentre la chiagnazzara lo piange, si suona, si balla e si va all’arrembaggio del carro funebre di lui, addobbato di salami, carni e di ogni ben di dio.

Nei detti, la storia si dilata, si spiega e si dilunga. Talora la mano dei parroci vi ha consigliato e inserito messaggi di carità evangelica a santa edificazione dei grandi e dei piccini che, spesso, vengono declamati durante la lettura del Testamento di Carnevale che, talora, ha un precipitoso quanto tardivo conato di redenzione.

A questa tradizione si è dedicato anche un genio del teatro napoletano quale è stato Raffaele Viviani. Nella commedia “La morte di Carnevale”, Viviani trasporta la vicenda dal mito alla Napoli dei vasci (bassi) del primo ‘900, riportandone archetipi e aggiornando, persino, schemi comici che c’erano consegnati dall’antichità più risalente.

Pasquale Capuozzi, vecchio e laido usuraio, è il “Carnevale” a lui contemporaneo: vecchio, grasso, laido e avarissimo, perfetto Euclione avvinghiato a una pentola piena dell’oro sudato dalle lacrime dei gonzi che a lui chiedono denaro c’o ‘nteresse. Ma anziché essere circondato da giovani innamorati e animati da buoni sentimenti, Capuozzi è circondato da un nipote fannullone e da un’amante (‘a femmena) ancora più avida di lui, per un intreccio che – lungi dall’ossessione del messaggio – diventa un capolavoro del comico quasi inarrivabile.

Event Details
Cerca Evento