
I sigilli posti alle porte del gioiello neogotico, fanno rigirare Lamont nella tomba: incompreso era, incompreso è rimasto
L’intellettuale francese Regis Debray ha recentemente dato alle stampe il suo ultimo pamphlet, Contre Venise, nel quale invita i turisti provenienti da Parigi a boicottare Venezia per dirigersi invece a Napoli, città vitale e poetica, dove il passato rivive nel presente. Dopo le molte recensioni apparse su alcuni passi del testo francese, sulle pagine social di molti Napoletani sono puntualmente apparsi i commenti e le lodevoli citazioni di Debray.
Ecco, facendo eco a questo invito, consigliamo caldamente a questi stessi turisti di recarsi allora a Napoli il prima possibile, anzi subito, di corsa, visto il rischio imminente di trovare i più affascinanti monumenti della città chiusi o addirittura crollati. Sì, perché nei giorni dell’euforia, quelli del campanilismo poggiato sulla citazione delle parole dell’intellettuale transalpino, compare anche la notizia dei sigilli che i Carabinieri del nucleo Tutela del patrimonio culturale hanno posto alle porte di Villa Ebe, gioiello neogotico arroccato sulle rampe di Pizzofalcone, realizzato nel 1922 da Lamont Young, geniale precursore e seducente protagonista dell’architettura napoletana del primo Novecento. In merito a questo, però, sui sopracitati canali social stavolta regna il totale silenzio: le notizie sono scarne e l’attenzione sull’argomento è poca, infima se paragonata a quanto esiste dietro Villa Ebe. A dirla tutta, oggi già non se ne parla più.
Il bene è di proprietà del Comune di Napoli, spesso dichiaratosi sensibile all’offerta culturale per i cittadini, ma, nel concreto, rassomigliante a una vetusta e sonnecchiante espressione politica di un’era che fu, ancorata ai soliti slogan intrisi di retorica e puntualmente recitati a memoria dinanzi alle telecamere dei telegiornali regionali. Le nostre orecchie hanno ascoltato proclami ambiziosi: il bene doveva diventare sede di un museo dell’arte Liberty, poi è arrivata la messa in vendita – nonostante i fondi approvati per il restauro, con un bando di gara –, e infine il dietrofront, con la scelta di mantenere il palazzo. Uno spettacolo patetico, ma, per carità, certamente teatrale e ricco di colpi di scena.
In verità, quella di Villa Ebe è la cronaca di una morte annunciata. Il sito versa in condizioni disastrose, fatiscenti e pericolanti da decenni, e lo sapevamo tutti, pur non avendoci mai potuto metter piede. Basti pensare che nel 2000 un incendio doloso ne aveva ulteriormente logorato i locali, da quel momento nulla è stato fatto. Il web offre a questo proposito un grande numero di immagini degli interni, occupati abusivamente da vagabondi. Sono documenti inesorabili dell’abbandono delle istituzioni di un luogo prezioso, che ancora trasuda l’eleganza e il gusto cosmopolita dell’architettura partenopea di inizio secolo. C’è da chiedersi di questo passo quale sarà la prossima nefasta notizia, che ad ogni modo si spegnerà presto, lasciando spazio agli elogi dell’intellettuale di turno idolatrante la nostra città. Nell’attesa, Lamont si rigira nella tomba: incompreso era, incompreso è rimasto.