Dal Neolitico al Medioevo, la vita quotidiana delle popolazioni che hanno abitato la valle del fiume Sele
Tombe e fornaci, gioielli e conocchie, la storia millenaria dell’antica Eburum esposta al Museo Archeologico Nazionale di Eboli. I reperti, dal Neolitico fino al Medioevo testimoniano la vita quotidiana delle popolazione che nel corso dei secoli hanno abitato la valle del fiume Sele.
Il Museo è allestito nello storico Convento di San Francesco, che sorge nel centro storico di Eboli in quella che una volta si chiamava Piazza Municipio e che adesso invece è dedicata al Santo Poverello d’Assisi. Accanto al Museo Archeologico Nazionale di Eboli e della Media Valle del Sele c’è la Biblioteca Comunale e la chiesa di San Francesco.
La struttura è stata aperta nel 2000, dopo il restauro che ha recuperato l’imponente struttura ai danni patiti dal terremoto del 1980.
Accoglie i visitatori la Stele Eburina, una colonna di epoca romana risalente al secondo secolo dopo Cristo. Sulla Stele è incisa la dedica a un antico dignitario, Tito Flavio Silvano “patrono del municipium di Eboli, per due volte duoviro quinquennale, questore preposto all’amministrazione del tesoro, curatore dell’approvigionamento alimentare”.
L’esposizione segue il filo cronologico. Sono due gli ambienti che ospitano l’allestimento. A separarli l’imponente scalone dell’area Ovest del Convento. Al piano terra, insieme alla Stele, ci sono due sale. La prima è dedicata ai reperti scoperti nella zona di Eboli risalenti al Neolitico e al primo periodo dell’Età del Bronzo. In quella immediatamente successiva, invece, è ospitata la ricostruzione di alcune delle tombe risalenti all’Età del Ferro e scoperte in varie località.
Tra queste, la tomba 290 nella Necropoli di San Cataldo, in cui era sepolta una giovane donna, di età compresa tra i 15 e i vent’anni. Sontuosa deve essere stata la sua veste funebre, lo testimoniano i gioielli, fibule, spirali, anelli bronzei, trovati in quel sepolcro. Grazie a questi preziosi, c’è anche l’ipotesi sull’acconciatura che sarebbe stata data alla povera donna. Un elegante copricapo velato dotato di piccole “frange” d’ambra, sovrastava i capelli trattenuti da un fermatracce in bronzo (sul lato sinistro del cranio).
Culti e reperti che testimoniano un fiorente scambio, spesso non proprio pacifico, tra le popolazioni dell’area; dagli italici agli etruschi passando per i greci. A differenziare le diverse culture tra loro, proprio il culto dei morti.
Al piano superiore, invece, il filo della storia si dipana con i resti scoperti fino all’età romana-repubblicana e, persino, in piena era cristiana. È un viaggio lunghissimo che si snoda attraverso il culto dei defunti. Ci sono conocchie e fusi, il culto del vino e del symposium (da cui la suggestione della filatura e della festa, la quotidianità antica come una delle chiavi di lettura proposte dal Museo). Tra olle, oinochoe, buccari di fattura etrusca fanno bella mostra di sé alcune piccole croci (una delle quali d’oro), scoperte a Campagna e ritenute risalenti al IV secolo dopo Cristo. A conferma del fatto che, come testimonia la storia della Basilica Paleocristiana di Paestum (che dista da qui circa venti chilometri), il cristianesimo attecchì rapidamente nell’area silarica. Proprio sulle sponde del fiume Sele, del resto, si consumò (parte) della storia del siciliano San Vito, uno dei santi martiri più importanti della cristianità dell’Italia meridionale.
Nell’ultima ala del piano superiore, ci sono i resti scoperti nella Fossa A in località Castelluccia di Battipaglia di un uomo che, nell’Età del Bronzo, ebbe in destino una morte orribile; sarebbe stato picchiato, poi cosparso di liquidi bollenti e infine “lapidato” con vasi e cocci. Importantissimi, inoltre, i ritrovamenti quali l’olla Mammata (risalente alla fine del XVIII secolo avanti Cristo).
Proprio l’antichissima produzione di vasellame, attestata in quell’area e risalente fino al tardo Neolitico, rappresenta un’altra chiave. Quella delle fornaci, una antichissima “tradizione” che scavi più recenti dimostrano essersi conservata in tutta la zona (almeno) fino all’età romana. Epoca, questa, in cui la città dové essere fiorente come testimonia la scoperta della Villa Patrizia in località Paterno di Eboli.
Di recentissimo allestimento, nella Cappelletta dei Frati Cappuccini, l’esposizione sui reperti risalenti al XIII secolo. Si tratta di importanti testimonianze che confermano come la città di Eboli mantenne, anche dopo l’età romana, la sua centralità risultando – con poco più di 360 famiglie “censite” – uno dei centri più importanti della Campania Meridionale.