C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui il tatuaggio non era una moda da vip. Tant’è che ancora i vecchietti storcono il naso quando vedono attrici e calciatori coperti da scritte, disegni e tribali. Un pregiudizio, certo. Dovuto a un fatto incontrovertibile: fino a pochissimi decenni fa il tattoo era un marchio d’infamia perché tradiva una solida frequentazione delle patrie galere.
A Napoli ci fu uno studioso che si dedicò a classificare, riconoscere e analizzare l’emblema per eccellenza della sottocultura carceraria degli ultimi decenni dell’Ottocento. Si chiamava Abele de Blasio, originario di Benevento, figlio del suo tempo e allievo di Cesare Lombroso. Fu docente di antropologia criminale all’università di Napoli e si fece alfiere, al Sud Italia, dell’applicazione pratica della materia promuovendo una collaborazione intensa con le forze dell’ordine così come, all’epoca, si andava imponendo in Francia con successo. Si occupò a fondo della malavita dell’ex capitale borbonica e di ogni fenomeno criminale nell’ormai italiano Regno delle Due Sicilie. Scrisse numerose opere, tra cui una monografia dedicata proprio al tatuaggio.
Dei marchi sulla pelle dei detenuti, de Blasio parla in uno dei capitoli più importanti e interessanti del suo “Usi e Costumi dei Camorristi” pubblicato a Napoli nel 1897 dall’editore Luigi Pierro.
Lo studioso beneventano, nel lungo e laborioso studio sui tatuaggi, individua ben dodici categorie. Molto più attuali e diffuse di quanto ci si potrebbe aspettare. Nelle carceri napoletane ci si tatuavano soggetti di natura religiosa (per quanti Padre Pio oggi tante Madonne dell’Arca ieri), d’amore, di nomignolo, di vendetta, di graduazione (affiliazione e status all’interno di gruppi criminali), di disprezzo, di professione (come riconoscimento tra ladri, grassatori, guappi e compagnia delinquente), di bellezza, di data memorabile (adesso spesso in numeri romani), osceno (e qui la fantasia si sbizzarriva), simbolico (animali fantastici) e “misto”. Gli stessi tatuaggi, a seconda della posizione sul corpo, vengono distinti da de Blasio in palesi (mani e braccia o nei di bellezza, diffusi soprattutto tra donne di bordello e femminielli) e occulti.
Le tecniche utilizzate erano imparagonabili, ovviamente, a quelle attuali. Ci si tatuava con quello che c’era. Persino con la carta bruciata, intonaco staccato e opportunamente “abbrustolito” qualcuno persino con la polvere da sparo.
Tra i “tatù” più curiosi raccolti (e disegnati) dall’antropologo ci sono delle chicche. “Da questa si nasce, con questa si pasce, per questa si muore”, motto posizionato sotto una trionfante vagina più o meno stilizzata. Oppure “Papè sì nu piglia ‘nculo”, che tale Raffaele S. – “colpevole” di aver fatto pizzicare dalle “guardie” una rocchia ‘e mariuoli in flagranza di reato – fu costretto a portarsi inciso sul braccio destro per sempre.
a cura di Giovanni Vasso