FF. SS che mi hai portato a fare sopra Posillipo se non mi vuoi più bene?

Un sospiro d’amore che fa cessare ogni dolore

Posillipo non è una collina. È un sospiro d’amore che fa dimenticare gli affanni. Lo dice anche il suo nome, glielo diedero i greci Pausilypon: “Pause” “Lypon”, cessazione del dolore. Quando da Mergellina alzi lo sguardo, te la trovi sulla testa, imponente e bellissima vestita di tufo, sole e giardini. Ai suoi piedi c’è la Madonna di Piedigrotta, venerata da pescatori e marinai che a lei dedicano canti e preghiere. E la devozione, la fede è altro elemento che unisce mare e collina. Da un lato la bionda Madonna severa e bellissima col suo bambino in grembo, dall’altro, in alto a tutto, il Santo di Padova che si affaccia su Napoli.

A questa terrazza alta ci si arriva per quel “collem pendentibus” divenuto strada di rampe per volontà del viceré Ramiro de Guzman duca di Medina. Tredici rampe per la precisione, come il numero fortunato e come il giorno della morte del Santo avvenuta proprio il giorno 13, nel giugno del 1231. Le rampe strette e a gomito sono dette anche le “tredici scese e’ Sant’Antonio” (ma io – che fortuna eh? – le ho fatte tutte in salita). Percorrerle lentamente a piedi però consente di apprezzarne la vera natura: un antico casale con le sue edicole votive e la sua generosa vegetazione fatta di fiori e fichi selvatici.

L’ ascesa è un lento pellegrinaggio che ti conduce poi in Paradiso. Quel paradiso è la terrazza Posillipo e da qui col golfo davanti, il Vesuvio e le isole capisci che il colore del Paradiso deve essere proprio questo, l’azzurro. E se da qui ancora hai qualche dubbio sui tuoi  “natali”, alla ringhiera trovi un bel telone rigorosamente azzurro con su scritto “born partenopeo”. Quando ti affacci da questo luogo l’azzurro non ti abbandona più. Napoli diventa monocroma. Tu cammini, imbocchi altre vie come quelle dedicate ad illustri poeti, Orazio, Petrarca, poi ci sono scale e parchi immersi nel verde e nel tufo. Ma lui, il mare con il suo azzurro sta lì, la sua luce ti ammalia e, come una sirena ti richiama continuamente a sé ed allora l’ascesa diventa discesa.

Da Via Petrarca, fatta di bar eleganti, c’è un parco che scende verso il mare. Poche scale e lo attraversi entrando nel suo intestino nascosto. È il parco Carelli. Qui c’è un’altra Napoli, sembra un borgo fuori dal tempo e c’è un ascensore sconosciuto realizzato in un una piccola torre merlata in tufo. Sale e scende questo generoso ingranaggio per non far affaticare troppo la gente che abita in questo intestino nascosto. E Posillipo, anche in questo, resta fedele al suo nome, tregua dagli affanni.

Ogni tanto, tra antichi casali dal color pastello si scorge qualche raffinato edificio liberty: è la miseria che convive con la nobiltà. Ma l’ultimo edificio nobile che si raggiunge alla fine del parco attraversando Via Posillipo, è un Palazzo che porta il nome di donna: Palazzo Donn’Anna. È il palazzo più bello di Napoli, è seicentesco e porta la firma di un marmoraro bergamasco, Cosimo Fanzago. Donn’Anna Carafa di Stigliano era la moglie del viceré, duca di Medina de las Torres. È costruito su tufo ed ha spiagge ai suoi lati. È incompiuto come una sinfonia di Beethoven e, come diceva Matilde Serao “le sue finestre senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero”. Sembra una rovina, danza tra le onde. Gioca coi gabbiani. Ci fa sospirare d’amore. Siamo al mare, siamo scesi dalla collina. Questa è ancora Pausilypon che, appunto, non è una collina ma un sospiro d’amore.

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