La solitudine del personale viaggiante e la fortuna di uno stagista lungimirante
Come al solito ero in ritardo e come al solito stavo incolpando il traffico, il cambiamento climatico, le scie chimiche, i politici corrotti, i lavori infiniti della metropolitana e, last but not least, la mia sfiga tremenda. Un’analisi più oggettiva avrebbe rilevato che se hai un appuntamento all’aeroporto alle 17:15 non puoi uscire da casa alle 16:47. A meno che tu non viva in un camper nel parcheggio dell’aeroporto stesso.
Avevo confidato fino all’ultimo in un ritardo del volo ma il sito dell’aeroporto era stato chiaro, e poco importa se per consultarlo avevo rischiato di provocare un tamponamento a catena in tangenziale, la mia cliente sarebbe atterrata addirittura con due minuti di anticipo. Non avevo scelta: accesi le quattro frecce, misi il fazzoletto, che portavo sempre nella tasca della portiera della mia auto, fuori dal finestrino e imboccai la corsia di emergenza a tutto gas. Si, lo so, 1.485 euro di multa di pena massima, sei mesi di sospensione della patente con relativa decurtazione di dieci punti sono sproporzionati rispetto al mio compenso ma se hai scelto di fare questo mestiere non puoi perderti nessun cliente nemmeno per tutto l’oro del mondo.
A essere onesto io questo mestiere non l’avevo scelto piuttosto era stato lui a scegliere me, come dicono quelli che si vergognano di guadagnare tanto con lavori spudoratamente fascinosi ma tutt’altro che indispensabili. E mentre con una mano tenevo il fazzoletto fuori dal finestrino e con l’altra, il volante, con il pollice ovviamente attaccato al clacson, ripensai alla mia prima volta. Non a quando avevo fatto cilecca con una prostituta, sia chiaro, ma alla prima volta che avevo pensato a questo nuovo mestiere.
L’idea mi era venuta quattro anni prima, grazie a una hostess che avevo conosciuto sul volo Madrid – Roma. È inutile dire che la succitata ultra quarantenne era lontana mille miglia (per rimanere in tema) dalla strafiga super sexy che l’immaginario collettivo associa a un assistente di volo. Alba, così si chiamava l’hostess bruttina, accettò senza esitazioni di raggiungere il centro città per bere un aperitivo. Sì perché oggi, se entri in un bar dalle diciannove alle ventitré e chiedi un the, una limonata o una cioccolata calda, tutti i clienti ti guardano come un alieno scappato dall’Area 51. Al terzo Spritz la mia mente aveva ormai demolito la mia naturale repulsione per le donne basse, quelle troppo grasse, il seno penzolante, l’alitosi e la sudorazione eccessiva. Quando la mia mente, offuscata dall’alcool, la aveva ormai sollevata a coniglietta playboy, Alba mise fine a ogni mia intenzione bellica confidandomi di essere in cura per un lieve stato di depressione. Il film porno che per la mia immaginazione era già in fase avanzata di pre-produzione con scelta della location, casting, musica, guardaroba, trucco e parrucco ormai completati, si trasformò nel più triste dei film del cinema russo d’avanguardia dei primi del 900. Ormai la serata era totalmente compromessa e i suoi discorsi sulla solitudine del personale viaggiante non aiutavano a uscire dalla palude di angoscia in cui ci eravamo insabbiati. Eppure una frase colpì il mio subconscio, qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la mia vita lavorativa. E’ ovvio che al momento non sapessi di quale frase si trattasse. Non avevo sentito nemmeno una parola di quello che usciva dalla bocca della povera Alba eppure qualcosa stuzzicò il mio ingegno. Forse fu l’uso eccessivo di prosecco, o l’effetto dell’Aperol sulla peperonata consumata a pranzo, oppure la mia presunta intolleranza all’acqua tonica, ma nel mio cervello scattò una molla che, a breve, mi avrebbe trasformato da perenne stagista a lungimirante imprenditore di successo. E mentre Alba sciorinava gli effetti della depressione sulla sua misera vita, il mio cervello si riprese dal torpore al quale, l’umiliazione di una vita da precario, nonostante una laurea e due master in economia, lo aveva condannato. Sentii nascere dentro di me talmente tante idee da prendere seriamente in considerazione l’uso, a scopo terapeutico, di tre Spritz al giorno. Sono sicuro che un farmaco per la protezione del fegato sia già stato inventato e giaccia nella cassaforte di qualche multinazionale insieme alle cure per la carie, la calvizie, l’emicrania e l’instabilità psicologica da ciclo mestruale. Quell’hostess e la maggior parte dei suoi colleghi erano depressi ed io, da economista ancora imballato nel Pluriball, sapevo come trarre enormi benefici da quel gap emozionale. L’analisi costi-benefici era già partita in background e tutte le previsioni pendevano inesorabilmente verso la vittoria a tavolino della squadra in trasferta.
Nei pressi del casello autostradale abbandonai la corsia di emergenza, rimisi dentro il fazzoletto e staccai finalmente il pollice dal clacson. Non era la prima volta che usavo l’espediente del finto ferito a bordo e avevo sperimentato a mie spese che molto spesso la polizia stradale effettua posti di blocco proprio dopo i caselli. Qualche anno prima, gli uomini della pattuglia, vedendomi arrivare strombazzando, col fazzoletto fuori, mi avevano scortato fino al pronto soccorso con le sirene spiegate. Quando i due efficientissimi agenti di polizia avevano scoperto che ero da solo in auto, avevo dovuto fingere un attacco cardiaco e rimanere al pronto soccorso per una notte intera. Per fortuna quella volta non avevo un cliente da incontrare ma solo fretta di tornare a casa per godermi una partita di Champions. Dopo aver sostenuto tutti gli esami del caso, che scongiurarono qualsiasi tipo di problema al cuore, guardai la partita sul mio iPad insieme a tre infermieri, l’anestesista di turno, un addetto alle pulizie e una guardia giurata. Il Napoli stravinse e, per la mia ripugnante inclinazione alla scaramanzia, fissai un appuntamento, per la partita di ritorno, con quel gruppo di tifosi improvvisati. Questa innaturale sfida alla iettatura assumeva sviluppi patologici quando giocava la mia squadra del cuore. Se fossi stato a casa, avrei indossato la maglietta che portavo allo stadio il giorno del primo scudetto, mai lavata, con la stessa macchia di salsa che trent’anni prima era colata dalla mostruosa merenda che ero solito consumare sugli spalti. Sempre la stessa, poiché la prima volta che la mia cara nonna me l’aveva preparata, il Napoli aveva ottenuto un’importante vittoria. Dopo trent’anni ogni volta che vado allo stadio, devo mangiare un cozzo di pane casareccio ripieno di polpette al sugo e patatine fritte. Un abbinamento che per molti anni ha appagato totalmente il mio palato ma che oggi, non solo mangio controvoglia, ma è soprattutto difficile da trovare. Da quando la buonanima della nonna è passata a miglior vita, le mie domeniche mattina le ho passate alla ricerca di questi due ingredienti poco affini e con l’avvento delle tv a pagamento, e la relativa frammentazione dei campionati, la situazione è indubbiamente peggiorata. Fino a quando non scoprii che il kebabbaro sotto casa vendeva polpette. Certamente quello che lui impropriamente chiama “bolognese” non somiglia nemmeno vagamente al ragù della nonna ma da convinto difensore della globalizzazione culturale che sta interessando la mia città, non posso confessargli che la curcuma, lo zenzero, il cumino, il cardamomo e tutte le spezie che lui adopera mi fanno testualmente cagare. Il pane che, in barba a tutte le leggi sul commercio, sull’igiene e sulla sicurezza sul lavoro, ho sempre comprato dal cofano delle auto parcheggiate nei pressi dei forni abusivi, adesso lo compro al Carrefour, aperto 24 ore su 24. Sì perché da qualche anno in Italia, ultima nazione al mondo credo, esiste un posto dove poter fare la spesa pure di notte. A Napoli questa cosa non è stata ancora ben digerita da tutti. Il disagio, che ha la sua genesi nell’apertura dei primi centri commerciali, ha spinto comunità intere a organizzare proteste a favore dei piccoli commercianti. Ci sono stati sit-in, fiaccolate e veri e propri tumulti che i no-global, a confronto, sembrano un gruppo di Araldini francescani. A questi paladini delle piccole botteghe di quartiere, però, vorrei solo far notare che io uscivo da casa alle sette del mattino e, se mi andava bene, ritornavo alle nove di sera. E’ soprattutto per questo che dovrebbero indignarsi: come mai a un giovane laureato è negato ogni diritto alla sua vita privata per un tirocinio da 900 euro al mese? E’ la schiavitù alla quale sono ridotti i loro figli che dovrebbe spingerli a riempire le piazze. E a tutti quelli che hanno avuto l’ardire di rilevare che il salumiere sotto casa è aperto anche di sabato, ho sempre risposto che la spesa nei megastore mi costava la metà. Non è colpa mia se, fino a quattro anni prima, avevo il potere d’acquisto di un greco dopo la crisi economica del 2009. Io non la volevo nemmeno l’Europa Unita. Non riesco ad andare d’accordo con mia sorella maggiore figuriamoci con un tedesco che, magari, è pure il nipote del soldato che settant’anni fa torturò mio nonno solo perché, a quei tempi, si cambiavano gli alleati più facilmente di quanto io riesca ad aggiornare il mio profilo Facebook. Noi siamo i nipoti di quella guerra e i nostri padri, drogati dal boom economico del dopoguerra, ci hanno fatto credere che non avremmo mai patito la fame. E invece è solo grazie a due senegalesi che ho potuto permettermi di vivere in una lurida stanza in un modesto appartamento al centro storico. I nipoti della guerra non rimangono a casa fino a quarant’anni perché sono dei bamboccioni ma solo perché non si possono permettere di pagare un affitto. Con il mio stipendio da fame giravo di notte in un supermercato vuoto alla ricerca di pane fresco. Perché da quando a vent’anni decisi di andare a vivere da solo, giurai a me stesso che non avrei mai più mangiato pane raffermo.
Per venti lunghissimi anni la mia cara mamma, tutti i santissimi giorni, mi ha obbligato a consumare prima il pane indurito e poi quello fresco. Una fervente cristiana come lei vede in quel miscuglio di acqua e farina qualcosa di spiritualmente ascetico che non può mai essere confuso con la comune immondizia. Quella cattolica appassionata che mi mise al mondo, butterebbe nel contenitore dell’umido anche la migliore bistecca fiorentina della Val di Chiana ma il pane no, il pane è sacro. Così nella mia casa materna si mangia sempre il pane del giorno prima, tranne quando si preparano le mie amate polpette che ora compro da Abdul e che riscaldo nel microonde prima di uscire da casa. Le patatine invece le compro da McDonald’s che ha aperto proprio fuori lo stadio e sulle gradinate compongo la mia multietnica merenda propiziatoria.
Ovviamente la fila ai caselli è lunghissima. Maledico ancora una volta la mia pigrizia per colpa della quale ho sempre rimandato l’installazione del telepass e, senza pensarci due volte, mi attacco a una macchina che sfreccia nella corsia riservata al quel tipo di pagamento automatico. Non è la prima volta che uso quell’espediente e ancora oggi ho paura che, alla fine, la società Autostrade Spa mi mandi una multa obbligandomi a pagare tutti i pedaggi scroccati comprensivi dei relativi interessi. Evidentemente se ti attacchi bene all’auto che ti precede nessun marchingegno elettronico, potrà mai sgamarti. A patto che l’auto che hai davanti non decida improvvisamente, e senza nessun valido motivo, di arrestare la sua corsa.
Per fortuna a me è successo solo una volta. All’epoca dei fatti ero fissato per le Smart mentre il proprietario del telepass generoso aveva un SUV. Stampai il logo della mia Smart dietro il paraurti posteriore di quell’abnorme veicolo senza neanche tentare la frenata. La capsula di acciaio della mia Smart tenne bene l’urto e grazie alla cintura di sicurezza alla fine me la cavai con qualche escoriazione al volto. Quel giorno indossavo una t-shirt e fu questo a salvarmi. Se avessi indossato una camicia, non avrei mai messo la cintura. Mica posso accogliere un cliente con una camicia stropicciata?
Il tizio nel SUV, che si scusò per aver frenato bruscamente, ebbe la peggio, almeno secondo il referto di un medico, come minimo compiacente, e il risultato fu che qualche mese dopo la mia assicurazione non volle più rinnovarmi il contratto. Da allora quando compio la manovra scrocca telepass aspetto sempre che a precedermi ci sia un’auto di grosse dimensioni.
Oggi però non ho troppo tempo da perdere e mi attacco al paraurti posteriore di una Panda. La tizia al volante se ne accorge e, per fortuna senza rallentare, mi mostra il dito medio dallo specchietto retrovisore. Al volante della mia Volvo S90, scelta proprio per i risultati eccellenti nei crash test di qualche mese prima, la sorpasso e le mando un bacio col soffio che la lascia a dir poco basita. Mi ricorda la faccia delle mie prime clienti. Perché all’inizio avevo solo clienti del gentil sesso ed era pure normale visto che il mio sponsor era Alba. La mia musa ispiratrice parlava sempre più spesso di me nei 736 gruppi di WhatsApp cui si era unita. Quel tamtam virtuale, a metà tra il pettegolezzo da parrucchiere e lo stalking vero e proprio, era stato il mio primo veicolo di marketing. E dopo quattro anni lo era ancora. Grazie a quel passaparola a suon di faccine ero finito nei gruppi di dipendenti delle ferrovie, di addetti alle cabine delle navi da crociera, di marinai di lungo corso, di autisti di autobus a lunga percorrenza. Il mio target erano tutti quelli che, per motivi di lavoro, viaggiano molto e ben presto annoverai tra i miei clienti manager, agenti di vendita, consulenti, traduttori e perfino narcotrafficanti. Ovviamente a me non importava che lavoro facessero i miei clienti ma quando ti ritrovi nel porto di Civitavecchia circondato da sette pastori tedeschi inferociti qualche stupida convinzione inizi a perderla. Marco, che per me era un broker di una società con sede in Catalogna, era appena sbarcato da una crociera nel Mediterraneo. Era fine Settembre ma un vento gelido che soffiava dal mare sorprese un po’ tutti su quella banchina.
Marco prese dalla sua valigia una sciarpa di seta e me la porse. Io, che indossavo una maglietta e un pantaloncino corto e avevo ormai perso l’uso delle corde vocali e delle falangi di entrambi le mani, accettai quel gesto di buon grado, ignaro che la valigia fosse zeppa di cocaina e che Marco andasse e venisse da Barcellona per ben altri motivi. I cani apparvero dal nulla. Gli agenti facevano fatica a tenerli. I guinzagli tesi, che sembravano dovessero spezzarsi da un momento all’altro, innervosivano ancora di più i cani che ringhiavano e sbavavano come in preda a raptus omicidi. Uno dei pastori tedeschi si attaccò alla mia sciarpa come se fosse l’ultimo brandello di carne esistente al mondo e lui fosse digiuno da chissà quanti mesi. Svenni dalla paura e quando rinvenni nell’ufficio doganale, mi resi conto di essermela fatto addosso. Marco si accollò tutta la colpa dichiarando che ero semplicemente un suo amico venuto a prenderlo al porto e, in effetti, non disse niente di così lontano dalla realtà. Gli agenti, dopo aver rivoltato come un calzino, la mia fedina penale, mi lasciarono andare anche perché la puzza che emanavo era nauseante.
Prendo finalmente l’uscita dell’autostrada con la scritta “Aeroporto” quando mancano solo tre minuti all’atterraggio. La sfortuna di avere clienti che viaggiano spesso è che loro non imbarcheranno mai il bagaglio nella stiva per cui non dovranno aspettare che gli sia restituito dopo l’atterraggio. Sono anche quelli che appena la prima ruota dell’aereo tocca terra, già hanno acceso il loro smartphone. Sono i primi a scendere dall’aereo perché, per stare più larghi, hanno scelto il posto vicino alla porta. Sanno a memoria i percorsi che faranno i pullman da sotto l’aereo fino alla zona Arrivi e se l’aeroporto è provvisto di finger sfrecceranno in quei connettori mobili come se stessero passeggiando nel proprio salotto di casa. Non saranno distratti dai prodotti assurdi che vendono, chissà perché, solo nei duty free e guarderanno gli addetti ai controlli doganali con aria di sfida. Al passaggio di questo esercito di efficienti ma depressi professionisti del viaggio perfino i cani antidroga abbasseranno lo sguardo e per me, che ormai sogno la loro estinzione, almeno questo, è grande motivo di soddisfazione.
Considerando che l’aeroporto di Napoli ha un ottimo servizio navette e che la mia cliente sarà fuori entro dieci minuti al massimo, devo per forza lasciare l’auto al parcheggio P10 che, essendo quello più vicino alla zona Arrivi, è quello che si riempie prima. E, infatti, non solo è pieno ma ci sono pure tre macchine che aspettano in fila fuori la sbarra dell’ingresso. Mentre mi mordo la lingua per non bestemmiare, che da ateo convinto ha ancora meno senso, raggiungo velocemente la zona Arrivi e parcheggio la mia auto nuova di zecca in una zona a rimozione carri gru. Spero che almeno abbiano il buon senso di trattarmela bene. Esco velocemente dalla macchina, prendo la giacca dal sediolino posteriore e un mazzo di fiori dal portabagagli. Mentre indosso la giacca controllo per un’ultima volta gli appunti sul mio iPhone: Beatrice, cinquant’anni (dalla foto allegata gli avrei dato di meno), sono il suo compagno, preferisce un vestito classico e ha pagato come supplemento un mazzo di diciassette rose fucsia e un bacio sulle labbra. Mi specchio nella porta a vetri dell’aeroporto e, nonostante la moda m’impone pantaloni sopra la caviglia e mocassini rigorosamente senza calzini, mi vedo molto bello. Tutto merito del mio nuovo lavoro. Quattro anni prima avrei visto in quel riflesso un uomo afflitto e senza speranza e mentre sono lì a gongolarmi il mio cellulare mi avvisa che manca solo un minuto al mio incontro di lavoro di oggi. Entro nell’atrio dell’aeroporto proprio mentre un flusso di viaggiatori esce da una porta di vetro. Beatrice mi riconosce subito e affretta il passo per raggiungermi. Io la bacio sulle labbra e, mentre le porgo quel meraviglioso mazzo di rose, le pronuncio la solita frase: «Com’è andato il viaggio?».
Quattro anni prima una hostess con le lacrime agli occhi mi aveva detto: «Per me non c’è mai nessuno ad aspettarmi. Nessuno che mi chieda: “Com’è andato il viaggio?”». Erano state queste le parole che avevano scatenato uno tsunami di sinapsi nel mio cervello. Alba era sull’orlo di una crisi irreversibile ed io capii che, con un piccolo gesto, potevo aiutarla.
Ogni volta mi sarei trasformato nel marito, il compagno, l’amico, il fratello, il figlio che non trova mai il tempo per andare a prendere i suoi cari di ritorno da un viaggio. Dopo aver sperimentato gratuitamente l’effetto antidepressivo su Alba, le avevo chiesto di farmi un po’ di pubblicità e ora avevo più di mille clienti contentissimi di passarmi tutti i soldi che risparmiavano per l’acquisto del Prozac.
Esco dall’aeroporto con Beatrice sotto il braccio proprio mentre il carro attrezzi porta via la mia auto. Facendo due rapidi calcoli, realizzo che oggi praticamente ho lavorato gratis ma la gioia palpabile che ho donato alla mia cliente è molto più appagante del vile denaro. Mi scuso con lei per l’inconveniente dell’automobile e le indico un taxi. Al primo incrocio chiedo al tassista di farmi scendere, saluto affettuosamente Beatrice e, prima che il taxi riparta, le dico: «Aggiungimi su WhatsApp» perché, in fin dei conti, devo tutto a questo Mercurio dei tempi moderni.
Con le ali ai piedi ha ricevuto nel 2017, una menzione speciale al Premio Massimo Troisi. Il racconto è contenuto nella raccolta La Crociera, edito Mreditori.