Come veniva allevato e mangiato: gli orci di Varrone e le ricette di Apicio
A Pompei, città opulenta, il cibo era ricercatissimo e raffinato. Le leccornie, per i cittadini più abbienti, non mancavano certo. Tra queste c’era la carne di ghiro.
Oggi i piccoli roditori non si mangiano più (o, almeno, i suoi cultori sono ormai pochissimi), però all’epoca il loro allevamento e il consumo era abbastanza diffuso tra i ceti ricchi. Questa abitudine è testimoniata a Pompei dal ritrovamento di alcuni gliraria, gli orci – da Varrone definiti però semplicemente dolia, barili – in cui si allevavano gli animaletti, per farli ingrassare, farne addolcire le carni e poi servirli ai banchetti. Alcuni di questi grossi vasi sono tuttora conservati all’Antiquarium di Boscoreale e al Museo Archeologico di Napoli.
Per avere un’idea di cosa fossero e di come venissero costruiti dai vasai, bisognerà rileggere Varrone che, nel De Re Rustica, descrive gli orci (non più alti di mezzo metro e dal diametro di poco più di trenta centimetri) come dotati di piccole scalanature sui lati (per aiutare il ricambio dell’aria e non farne mancare agli ospiti) e di un foro più grande usato per offrire il cibo (ghiande e castagne ma altre fonti parlano anche di miele e frutta secca) ai ghiri. Lo stesso Varrone ci ricorda che questi dolia venivano poi rinchiusi con un coperchio. Si tratta di un’evidente misura per evitare che fuggissero e ci induce a credere che così i roditori venissero allevati praticamente al buio.
Il letterato di Rieti, vissuto all’epoca in cui Roma passò dalla Repubblica all’Impero di Ottaviano Augusto, segnala che questi gliraria erano utilizzati in molte case di campagna, praticamente nelle fattorie. Cosa che è stata verificata, puntualmente, nell’area di Pompei dove sono stati rinvenuti proprio in quelle zone agricole che circondavano la città antica.
L’uso dei ghiri nella cucina romana è attestato da numerose altre fonti, oltreché dal Reatino e dalle scoperte archeologiche. Petronio, nel Satyricon racconta che il grande banchetto di Trimalcione fu aperto da olive, involtini, prugne e ghiri in salsa di miele condita ai semi di papavero. Però è in Marco Gavio Apicio, il più grande cultore della gastronomia antica di cui si raccontano le mirabolanti imprese da ghiottone (terminate col suicidio quando si accorse che il suo patrimonio, clamorosamente assottigliato a “soli” dieci milioni di sesterzi non gli avrebbe più consentito di continuare a vivere beandosi di ogni genere di leccornia), che si trovano tracce più interessanti e addirittura una ricetta per valorizzare al meglio le carni del ghiro.
Nel suo De Re Coquinaria, Apicio ha tramandato una ricetta differente secondo cui i roditori, ripuliti dalle interiora, venivano farciti con carne di maiale impastata con pinoli e polpa delle interiora del ghiro e poi aromatizzati con pepe, garum e col laser, un condimento ricavato dal silfio (un finocchio selvatico ormai estinto) e infine cotto al forno, oppure alla brace. Quindi, la glassa con la salsa al miele. A Roma, quindi mangiare ghiro era un lusso.
Non fu con la fine di Roma che si smise di mangiare il ghiro, anzi. In Francia, il ghiro ripieno rimase a lungo una vera specialità. Poi da piatto nobile, finì a pietanza ultrapopolare. In Calabria finì nel ragù dei maccheroni, mentre nelle aree interne della Campania, tra Irpinia e Sannio, si consumò alla pizzaiola, con aglio, prezzemolo e pomodoro.