Terra Murata quel carcere che a Procida guardava il mare

Tra le isole del Golfo di Napoli, Procida conserva più delle altre la sua identità caratteristica legata al mare e alle attività lavorative della nautica e della pesca, adagiata sulle sponde con la sua tipica architettura colorata che spicca nello sfondo azzurro del cielo e del mare. Tanti sono i luoghi della memoria sull’isola, ma uno in particolare trasmette una particolare suggestione e permette di vivere un’esperienza di recupero del passato che sembra potersi ancora toccare con mano.

Nel borgo di Terra Murata si può fare visita al bagno penale borbonico, già Palazzo D’Avalos, e carcere dismesso nel 1988, acquisito dall’Amministrazione comunale nel 2013 su cui ora si sta avviando un complesso progetto di valorizzazione per restituire la struttra alla pubblica fruizione.

Terra Murata è il primitivo nucleo abitativo di Procida, l’antica Terra Casata così chiamata per la presenza di numerose case addossate le une alle altre, con una brevissima distanza tra loro per impedire il passaggio dei pirati barbareschi – ha raccontato ad ecampania.it il Dottor Giacomo Retaggio che ha lavorato nella struttura a partire dagli anni ’60. Attraverso la Porta di Mezzomo si entrava nel borgo e la sera si chiudeva per una questione di sicurezza. Nel ‘600 Procida divenne feudo di Inigo D’Avalos, che ristrutturò il borgo e costruì il Palazzo gentilizio come dimora e come deterrente per i pirati che giungevano dal mare. Nella ristrutturazione dei D’Avalos venne costruita la via del Castello che portava al palazzo e la piazza circostante la struttura.

All’interno del carcere si vedono ancora i soffitti rinascimentali nelle stanze enormi riadattate a celle, con i semiarchi spezzati da muri divisori costruiti nel 1830 da Ferdinando di Borbone che volle riutilizzare la struttura in qualità di bagno penale. Del palazzo D’Avalos resta il cortile con il pozzo  e la facciata rinascimentale che ricorda molto i palazzi dell’Italia centrale, con un rivestimento in piperno. Il magazzino vestiario e la caserma agenti sono invece i resti delle sovrapposizioni ottocentesche.

C’era un settore dedicato alle lavorazioni, tra cui le telerie, la falegnameria, la legatoria istituite intorno agli anni 1830-40 dai gesuiti affinché il detenuto fosse impegnato in attività lavorative per redimersi. Intorno alla struttura dedicata alle lavorazioni si vedono le mura di cinta e le garitta per le sentinelle e il tenimento agricolo della Spianata, luogo così chiamato perché era la zona ‘spianata’ dal cardinale D’Avalos per la costruzione di via del Castello. Nella tenuta di 20mila metri quadrati si allevavano animali  e si coltivava la terra, vendendo i prodotti una volta a settimana in una sorta di mercato che si teneva nel carcere.

Nel cortile si vedono gli uffici del sopravvitto in cui si recavano i detenuti che avevano necessità di un supplemento di vitto e in questi uffici veniva ratificata la richiesta.

Il carcere è diviso in cinque sezioni, una parte segue il sistema cubicolare con un detenuto per cella, mentre il resto è multiplo con un numero variabile di detenuti all’interno, addirittura fino a quaranta per stanza. Si vedono ancora le doppie porte, il cancello interno e la porta lignea esterna con uno spioncino per eventuali necessità notturne. Le celle cubiculari sono colorate in modo diverso perché i detenuti avevano la possibilità di dipingerle in modo diverso. Negli ambienti si vedono le feritoie rettangolari strette di fuori e larghe all’interno per aumentare la visuale tra le stanze per i controlli di routine.  

Suggestive sono le doppie grate in ferro alle finestre che, per tre volte durante la notte, a mezzanotte, alle tre e alle sei, le guardie battevano con un bastone per controllare il rumore, sordo nell’eventualità le inferriate fossero state segate. Questo rumore è diventato negli anni uno scandire del tempo anche per i cittadini.

Luoghi di particolare suggestione sono gli ambienti che conservano i cumuli di divise degli agenti di custodia e dei detenuti o il lino destinato alla lavorazione e i vecchi telai. Restano ancora le divise invernali di panno pesante di colore marrone e le divisa estive di tela, le scarpe senza lacci per impedire che i detenuti potessero auto lesionarsi.

È ancora conservato il tavolo operatorio dove venne operato il Generale Rodolfo Graziani, capo di stato maggiore dell’Esercito italiano. Dal 1945 al 1950 il carcere di Procida ebbe tra i detenuti alcuni gerarchi fascisti tra cui Teruzzi, Iunio Valerio Borghese, Acerbo, Cassinelli che poi sono stati liberati con l’indulto Togliatti. Quando portarono Graziani a Procida spensero tutte le luci sull’isola e lo fecero salire al buio per timore di eventuali attentati, qui venne operato di appendicite acuta e scrisse il libro “Ho difeso la patria”.

Nella quarta sezione si vedono le celle di restrizione in cui il detenuto veniva rinchiuso per una quantità di giorni commisurata alla pena che doveva scontare. Anguste e con un unico lucernaio sulla porta di ingresso su cui era sistemata la lampadina esterna. Due sono le celle imbottite dove i detenuti con la camicia di forza venivano lasciati a sfogarsi senza potersi far male contro le pareti rivestite di gomma piuma. In una delle celle imbottite c’è ancora il letto di contenzione su cui venivano legati i detenuti pericolosi.

Il carcere, luogo di incredibile conservazione della memoria, fu chiuso a causa della insufficienza nei servizi igienici, non idonei a supportare un carico di persone che è arrivato negli anni ad ospitare fino a 500 persone.

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