Su via dell’Abbondanza conserva gli arredi originali della cucina e la trasformazione in tintoria e lavanderia
Tra le tante attività commerciali di una città antica come Pompei, non poteva mancare quella della “tintoria – lavanderia” dei tessuti. Nella città vesuviana, su via dell’Abbondanza e su via Stabiana, si trovano le fulloniche più importanti: quella di Stephanus e quella di Veranius Hypsaeus. L’articolazione interna di queste attività è molto complessa e non tutte potevano contare su un servizio completo. Si trattavano non solo tessuti usati che venivano portati al lavaggio, ma l’attività si concentrava anche sul lavaggio di vesti e tessuti nuovi, appena lavorati, che dovevano risultare splendenti per poi essere venduti al mercato. Il lavaggio costava un denario e gli affari dovevano girare abbastanza bene se si pensa che l’affitto annuo di una fullonica poteva arrivare addirittura a 1652 sesterzi.
La prima fase di lavorazione prevedeva il lavaggio dei tessuti all’interno di una vasca ovale con una mistura di acqua, soda e urina. La quantità di questa era cospicua e la più pregiata sembrava essere quella di un preciso animale: il dromedario. Non essendo però possibile reperirla con una certa frequenza, quella più utilizzata era sicuramente quella umana, tanto che agli angoli della strada spesso venivano messe delle anfore con un’apertura laterale dove chiunque poteva depositarla. Regolarmente passava uno schiavo addetto alla raccolta dell’urina che veniva portata alla fullonica. Ai tempi dell’imperatore Vespasiano, venne istituita una tassa sull’urina usata dalle tintorie tanto che le voci di protesta arrivarono fino all’imperatore che pronunciò la famosa frase: “pecunia non olet”, i soldi non puzzano, proprio perché i guadagni derivati dalla tassazione dell’urina fruttavano molto. Terminato il lavaggio all’interno della vasca, i tessuti venivano sciacquati grazie ad un sistema a cascata su vasche poste a diversi livelli, così da eliminare ad ogni risciacquo ogni traccia della mistura precedente. Le sostanze utilizzate per questa fase erano quasi tutte d’importazione; abbiamo l’argilla smectica del Maracco, oppure proveniente da Ponza che serviva a rendere migliore il tessuto per la successiva battitura. A questo punto non restava che stendere i “panni” e un’ampia terrazza sembra essere il luogo migliore. Qui avveniva la zolfatura che era necessaria per rendere i tessuti bianchi maggiormente splendenti per poi essere stirati sotto grandi presse a vite (una di queste presse è ancora visibile oggi preso il sito di Ercolano nella bottega del Lanario).
Passando dalla Regio I 6,7 è possibile ammirare la Fullonica di Stefano, riaperta il 25 dicembre 2015. Lo scavo venne effettuato per la prima volta tra il 1912 – 1913 e quello che è visibile attualmente altro non è che l’ultima modifica apportata all’abitazione da parte dei proprietari. Gli ambienti in cui si articola la fullonica, derivano infatti dalla trasformazione di una precedente domus, una casa ad atrio con peristilio, ristrutturata dopo il terremoto del 62 d.C. gli ambienti principali e tipici di una domus, quali atrio, oecus e triclinio, vennero trasformati e dotati di vasche per la lavorazione dei tessuti, così come l’impluvium dell’atrio venne dotato di una vasca con bordi alti e arrotondati. Stefano non sopravvisse all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Il suo corpo venne ritrovato infatti presso l’ingresso dell’attività con indosso un piccolo portamonete con all’interno l’incasso della giornata.
All’interno della Fullonica, è di grande interesse la cucina della domus, riallestita fedelmente con i reperti ritrovati da Vittorio Spinazzola durante lo scavo del 1912. Gli oggetti oggi esposti, tra cui padelle, pentole, bracieri, anfore e mestoli, erano tutti conservati nel deposito di Casa Bacco e sono stati identificati attraverso le riletture delle cosiddette “Librette Inventariali”, importantissimi registri dell’epoca che riportano il numero d’inventario dei pezzi e raccontano il luogo di ritrovamento durante lo scavo.