
“C’erano in lui la tradizione e la vita, il passato e l’attualità: auguro ai giovani la stessa fortuna che io ho avuto”
Nella mia vita, che comincia a essere lunga, ho conosciuto o incrociato alcuni giganti del teatro, Nureyev, Strelher, Ronconi. Non per mio merito, semplicemente perché ero alla Scala, dove passavano i grandi del teatro mondiale. L’incontro con Eduardo è stato il più importante. Veniva per montare un’opera di Rossini, la Pietra del paragone, alla Piccola Scala, un teatro nel teatro, il palcoscenico minore della Scala dove si rappresentavano opere barocche o per compagini piccole. Su quel palcoscenico ho girato le pagine – da ragazzo lo facevo guadagnare qualche lira – per Gold e Fitzdale, una coppia, nell’arte come nella vita, di vecchi pianisti che scrivevano anche biografie memorabili, come quella straordinaria di Misia Sert, e libri di cucina con le ricette che cucinavano insieme a Balanchine. Era un mondo incantato, la Scala di allora, un mondo autonomo rispetto a quello di fuori, col quale noi avevamo pochi contatti. Alla Scala c’era una mensa, un bar, un’infermeria – sono sempre stato ipocondriaco, sin da ragazzo – un calzolaio, un parrucchiere. Veramente del mondo di fuori non si sentiva il bisogno, e poi era tanto più ottuso, volgare, noioso del nostro. Quando, dopo il terzo segnale, tutti si bloccavano in scena e in un silenzio magnetico si apriva il sipario, avevo l’impressione, ogni sera, di partecipare a un rito iniziatico che ribadiva il senso ultimo della vita degli uomini. Un giorno, era il 1982, a compiere quel rito è arrivato il grande vecchio del teatro italiano, Eduardo De Filippo.

Eravamo tutti lì schierati nelle sale gialle, c’era la donna a capo dell’ufficio regia, un’inglese, gli altri assistenti, navigati, intimi delle stanze del potere scaligero, e in fondo un ragazzino ventenne, un borsista, l’ultimo arrivato. Insomma, Cenerentola. Ero io. Eduardo è sfilato davanti al capo, al secondo, al terzo, giù giù sino all’ultimo, ciascuno in trepidante attesa di essere l’eletto. Arrivato davanti a Cenerentola ha detto: “Lui. Voglio lui”. Gli hanno spiegato che lui era niente, meno di niente, e che c’erano fior di assistenti a sua disposizione, se solo avesse fatto un cenno… “Lui” – ha ripetuto accigliato, e vi assicuro che con Eduardo c’era pochissimo da scherzare. Non mi aveva scelto per simpatia, ma perché una sua cara amica, che era anche mia, Andrée Ruth Shammah, la direttrice del teatro che oggi porta il nome di Franco Parenti – altro straordinario attore – gli aveva consigliato di prendere me, Vittorio De Martino. Insomma, un vecchio e un ragazzino, un titano e una nullità. Una coppia così è improbabile, ma se si forma, può produrre effetti imprevedibili. Specie per la nullità.
Guardarlo dirigere i cantanti era un incanto, perché in lui l’arte del teatro era spontanea, connaturata, esemplare. I tempi, quei tempi che se giusti possono strappare una risata anche se la battuta è insignificante , erano perfetti. Aveva ottantadue anni, piccolo e fragile nel fisico, ma bastava una smorfia, l’ammiccare con lo sguardo, una mano che accennava a alzarsi e poi si lasciava cadere, e sorgeva tutto un mondo. Vedevo davanti a me l’ultimo rappresentate della più illustre tradizione teatrale italiana, che, lo ricordo, è in dialetto e non in lingua. Riconoscevo nei suoi gesti quelli antichi della Commedia dell’Arte e la lezione appresa dal padre, Scarpetta. Nell’opera di Rossini un personaggio entrava a sorpresa, inatteso, producendo un effetto comico. Il cantante aveva pensato di accompagnare la sua entrata con un’espressione burlesca. Eduardo lo corresse: “Non lo devi fare, perché due effetti comici si annullano”. Ed è esattamente così. Provavo per lui la stessa attrazione che Swan sentiva per la Duchessa di Guermantes, davanti a me avevo l’ultimo rappresentante della più illustre aristocrazia del teatro. Anche Eduardo era aureolato da un passato secolare popolato di dame, eroi, gesta epiche, tragedie, ma trascorsi su quel modello della vita che è il palcoscenico. Al Mestiere, e vedete che lo scrivo con la maiuscola, univa una capacità affilatissima di guardare il mondo. Rubava i gesti alle fanciulle timide e agli uomini boriosi, snidava l’ipocrisia e la rendeva patente solo con una leggera torsione del busto. C’erano in lui la tradizione e la vita, il passato e l’attualità. Ero consapevole che la lezione era unica e sarebbe rimasta, nella mia esperienza, ineguagliata.
Solo oggi, nell’autunno della mia vita, capisco che i sogni e l’energia dei ragazzi scaldano il cuore dei vecchi. Eduardo, probabilmente perché sentiva in me una passione sincera e irrefrenabile per il teatro – cioè che, pur essendo io un semplice scudiero, appartenevo alla sua stessa casta – prese a volermi bene. Anche fuori dal teatro voleva che l’accompagnassi, per esempio quando andava al ristorante. Quando lui entrava, improvvisamente tutti tacevano, poi scoppiava puntuale l’applauso e molti si alzavano in piedi. Una volta, vedendomi mangiare con avidità un piatto di gnocchi, ordinò al cameriere di portarmene altri due piatti. Lo divertivo, credo. Di me non mi chiedeva, sapendo che non avevo niente d’interessante da dire. In compenso, mi parlava molto. Di tutto. Della ricetta delle “vongole fuiute” – le donne del popolo, a Napoli, cucinavano l’aglio in modo che avesse il gusto di vongola – e della genealogia di Toto’: “Altro che discendente degli imperatori di Bisanzio. Toto’ era il figlio di un lord inglese!”. Mi parlava della sua vita. Della sorella Titina, che considerava una grandissima attrice e alla cui memoria era molto legato. Del figlio Luca era fiero, ma gli aveva fatto fare la gavetta, smontare le scene, lavorare con gli elettricisti, perché un attore deve conoscere ogni ricetta di quella magia che va in scena ogni sera su un palcoscenico. Chi non ce l’ha nel sangue, chi lo considera solo come un intrattenimento nobile e non una necessità, non può capire la dimensione etica del fare teatro. La figlia di Eduardo, Luisella, morì improvvisamente, all’età di dieci anni. Eduardo mi raccontò, non con commozione, o almeno senza un’emozione apparente, ma come un esempio da tenere a memoria, che lui quella sera stava recitando. Mentre era in scena, vide che nelle quinte gli facevano dei cenni. Pur continuando a recitare guardò meglio. Qualcuno teneva un cartello sul quale aveva scritto: “Luisella è morta”. Lui continuò lo spettacolo sino alla fine. Non me lo diceva per impressionarmi, voleva che capissi che il Teatro è un magistero. Quello che facciamo è meglio di ciò che siamo. L’uomo era straziato, ma l’attore è stato più forte. Eduardo l’ha detto, il teatro è una risposta alla paura della morte. D’altronde, questo è vero per ogni atto creativo. C’era un fondo tragico, in lui, anche se ero molto giovane lo percepivo, un giudizio amaro sulla vita e sugli uomini. La parte fragile, vulnerabile, commossa, va nascosta, nella scatola della Grande Magia, protetta come il presepe di Luca Cupiello. Il teatro è quella scatola, gli attori sono i personaggi di quel presepe.
Ero consapevole che quando sedevo nel suo salotto di Via Aquileia lui fingeva di parlarmi del teatro, ma la sua intenzione era istruirmi sulla vita. E la vita, ora che l’ho ampiamente esplorata, lo vedo bene, non è interamente reale, come non lo erano i suoi racconti. Eduardo aveva posseduto una piccola isola, Isca. Mi diceva che lì si era fatto un amico, un piccolo polpo. Ogni giorno si recava su un certo scoglio, ci picchiava sopra e poco dopo il suo amico polpo arrivava. Lui ci giocava, è probabile che gli raccontasse una delle sue storie. Poi il polpo tornava nel suo elemento. Un giorno il polpo non si presentò. Eduardo aveva un bel battere sullo scoglio, il polpo non venne. Vide allora passare la barca di un pescatore e riconobbe, nella rete, ormai inerte, il suo polpo. Non era importante che fosse vero, avrebbe potuto esserlo, era una poesia in miniatura, la fantasia di un bambino, una favola. La lezione era, oh! quanto giusta, che noi siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni.
Eduardo era molto sensibile al fascino delle donne. Io, così giovane, ero stravolto dal desiderio, che doveva necessariamente esprimersi in un atto. Notavo allora come un fenomeno alieno e incomprensibile l’evidente piacere, ovviamente gratuito, che gli si leggeva sul viso quando incontrava una bella donna. Sorrideva in un modo più caldo e era sempre di una galanteria esemplare. Mi raccontò che da giovane era andato a un ballo in maschera al Teatro Costanzi di Roma, che oggi è il teatro dell’Opera. Lui si era mascherato da lustrascarpe. “Perché da lustrascarpe?”, gli chiesi. “Pulivo le scarpe solo alle signore. Con quella scusa gli prendevo il piede e dicevo : Che bel piedino che ha, signorina”. Credo che ci fosse anche un seguito, ma purtroppo l’ho dimenticato.
Eduardo era tanto generoso quanto duro e irascibile. Io e altri fummo più volte messi al nostro posto durante le prove, bastava una parola di troppo, un sospetto d’insubordinazione. Ma aveva sempre ragione lui. Durante le prove di Rossini c‘era un cantante che avrebbe dovuto mettere dei baffi finti, ma quei baffi non c’era verso di farglieli restare incollati, si staccavano sempre. Eduardo mi disse: “Quella non è pelle d’attore, per questo non gli s’incollano i baffi”. Io pensai che era un’altra delle sue iperboli, gli attori non hanno una pelle diversa dai comuni mortali, ma naturalmente non replicai. Lui capì perfettamente cosa pensavo e per un po’ non mi disse niente. Dopo l’ennesimo tentativo fallito d’incollare quei baffi, Eduardo mi guardò con quel suo sorriso mezzo da satiro e mezzo da maschera d’Arlecchino, e mi disse: “Vedi, quello non è bravo. A cantare fa tanto sforzo, suda tanto, e i baffi gli si scollano”. Aveva ragione lui, non era pelle d’attore.
Alla fine della vita ci vedeva pochissimo, conservo ancora dei fogli scritti, credo, per il programma di sala di Bene mio, core mio, che facemmo a Napoli, al San Ferdinando, con Isa Danieli. Quel testo è incompleto, Eduardo scriveva la prima parte sul foglio, il resto, senza accorgersene, sul tavolino. Guai a dirglielo. Una volta, era buio, di sera, restammo forse cinque minuti davanti alla porta di casa sua, a Roma, perché non riusciva a infilare la chiave nella serratura. Quando timidamente gli proposi di farlo io quasi mi si mangiò. Alla fine fu lui a aprire la porta. Il corpo può cedere, lo spirito no.
Non ho saputo fare tesoro di quell’incontro e gli insegnamenti ricevuti non si sono tradotti per me in una carriera. Non importa. Il professionista ha mancato l’opportunità che il destino gli aveva regalato, ma l’uomo è cresciuto anche grazie a quell’esperienza. La passione che mi ha guidato è stata della stessa natura di quella di Eduardo, l’accanimento indefettibile a seguire la propria strada, il rispetto attonito davanti agli incantesimi che la vita produce e il bisogno di raccontarli, l’orgoglio di appartenere a una tradizione e l’umiltà che ne discende, la fede nello spirito indomabile mentre la materia ci abbandona. Questa mia testimonianza, commossa, grata, è dedicata a chi è giovane oggi. Per lui i modelli di ricchezza, lusso, arroganza, successo facile, senza competenza né preparazione, proposti anche ai più alti livelli, sono una facile tentazione. In teatro, lusso, arroganza, successo senza preparazione sono espressioni senza senso. Eduardo, che era tra i più grandi, mi diceva: “Io quanto entro in teatro, anche se sono vecchio e fa freddo, mi tolgo sempre il cappello”.
Auguro ai giovani la stessa fortuna che io ho avuto.